CHIARAVALLE – La prima domenica da disoccupato del pallone, da orfano della panchina – e della partita – era iniziata di…sabato. Il giorno della vigilia della partita è quello che attendo sempre con piacere: la “rifinitura” del mattino quando il sole mite dell’autunno bacia l’erba intrisa di rugiada e si respira a pieni polmoni il profumo del prato; si mettono a punto gli schemi, la tattica di gara, i calci piazzati, si dirama la convocazione. E poi il pomeriggio in pieno relax, quando fai zapping e ti vedi un numero imprecisato di partite cominciando dalla Premier inglese alle 13.30, proseguendo con la serie B alle 15, poi un po’ di Bundesliga e, finalmente, alle 18 il primo anticipo della serie A – e non importa se c’è Spal-Chievo, tanto vedi attentamente anche quello – per finire, mezzo rintronato, con quello delle 20,45 che spesso propone piatti forti, tipo Milan-Juve.
La mia prima domenica da disoccupato del calcio l’ho iniziata di sabato ma l’ho proseguita cercando di fare a meno del calcio, non riuscendovi, e provando a riassaporare gli odori, i profumi, i colori e i suoni della mia cittadina sulle sponde dell’Esino dove vivono 15mila anime: Chiaravalle.
Quella Chiaravalle citata sui libri per aver dato i natali a Maria Montessori, femminista ante litteram, una delle prime donne a laurearsi in medicina in Italia e la pedagogista che ha studiato un metodo educativo famoso in tutto il mondo. A parte la Montessori e l’abbazia cistercense del XII° secolo a Chiaravalle non è che ci sia granchè da vedere. Almeno all’apparenza perchè se scavi un po’, levi la crosta e vai in profondità, una domenica mattina di fine ottobre puoi ritrovare le tue origini e i tuoi luoghi dell’anima.
Mi metto a passeggiare e arrivo da Andrea, il mio edicolante di fiducia: la domenica è un rito obbligatorio comprare La Repubblica. I “cattivi pensieri” di Gianni Mura per me sono una sorta di lettura biblica laicissima ma indispensabile e appagante. Da lustri mi nutro di Mura e di Gianni Clerici, come ho amato visceralmente Gianni Brera e Beppe Viola e Indro Montanelli. All’ora in cui quella che era la mia squadra fino a una domenica fa è seduta a tavola per consumare il frugale pranzo delle 11,30 che precede la partita – pasta all’olio o al pomodoro, due fette di prosciutto o di bresaola, uno scacco di crostata – io mi metto in viaggio verso il fiume e poi verso i luoghi che mi sono sempre stati cari e che non frequento quasi più da 30 anni, con le domeniche sempre intrise di calcio, partite, trasferte, viaggi in pullman, derby, interviste, gol, pali, parate, infortuni, fischi arbitrali, cartellini rossi e gialli…stress.
Imbocco il “viale delle sigaraie”, chiamato così perchè percorso, cento anni fa e più, dalle donne chiaravallesi che lavoravano alla manifattura tabacchi: un viale alberato, dove purtroppo i bei platani di un tempo sono stati abbattuti perchè colpiti da un morbo che li aveva uccisi, che collega il centro storico con l’opificio che ha dato il benessere alla città (un tempo lavoravano in manifattura oltre 1200 addetti, ora 60). Dalla breve via La Retta giungo alla pista ciclabile che corre lungo l’argine sinistro dell’Esino. Passo vicino alla recinzione della Manifattura e il vento, che tira forte, gioca scherzi con la rete metallica: si ode un sibilo acuto che diventa suono e poi musica e infine si attenua dolcemente a seconda dell’intensità del vento.
Arrivo al ponte dove sopra corre l’autostrada e dove da ragazzini andavamo a pescare il pesce con le mani senza farlo sapere a casa.
Dove il fiume, un tempo molto più ricco di acqua, creava pericolosi gorghi e mulinelli. Lì, sotto quel ponte e sotto altri ponti, molti miei coetanei hanno iniziato a morire mentre si illudevano di trovare un po’ di felicità e un pizzico di libertà. Non sapevano di certo che scambiarsi quella siringa avrebbe potuto rivelarsi mortale e così se ne sono andati in tanti. Li ricordo tutti con tenerezza e con tanto dolore: erano ragazzi, come me, e mi mancano. Io sono stato più fortunato: giocavo già a calcio da anni e mi aveva comprato l’Anconitana: ero un promettente portiere. Per questo, solo per questo, non ebbi il tempo di frequentare quei ponti ma solo il fiume d’estate per pescare con le mani. La mia felicità era un campo di calcio, un tuffo sull’erba a mani nude: allora – quarantacinque anni fa – i portieri non usavano certo guanti speciali che sembrano spalmati di colla come ora.
Cammino lungo l’argine del fiume e ricordo l’infanzia, l’adolescenza e quelli che non sono arrivati ai miei 56 anni. Mi scende una lacrima e allora torno indietro, verso altri luoghi dove sono certo di trovare ricordi gioiosi. Cammino mezz’ora, passo davanti alla casa natale della Montessori e di fronte all’abbazia cistercense, incrocio il sindaco e due gentili assessore che tengono al decoro di questa cittadina dove non c’è molto di memorabile, e giungo al “campo dei preti”: lì è scorsa tanta parte della mia adolescenza, tra il campo duro di terra e l’oratorio, tra interminabili tornei di calcio e mirabolanti sfide di ping pong o di bigliardino con don Emiliano, un prete “rivoluzionario”, che ci aveva perfino fatto interpretare nel teatro parrocchiale l’Antologia di Spoon River di Lee Masters (era il 1976 o giù di lì!).
Ora al posto del nostro campo dei preti c’è un parcheggio inutile e altro cemento e un campetto di asfalto per il calcio a 5 che io chiamo, in modo eloquentemente dispregiativo, “il calcio in una stanza”. Che nostalgia del campo dei preti, dove tanti ragazzi hanno imparato un po’ a vivere e in diversi anche a giocare a calcio!
Il viaggio da orfano della panchina, la prima domenica da disoccupato del calcio, mi porta inevitabilmente al primo amore, forse l’unico davvero forte e quello che mi ha rapito strizzandomi l’occhiolino azzurro e mostrandomi il suo volto bello: il pallone. Solo dopo, solo da pochi anni, ne ho scoperto l’altra faccia, quella cinica, quella dura, quella dove gli allenatori sono divenuti l’anello debole di una catena che andrebbe spezzata e che viene tessuta sempre più spesso – soprattutto nelle categorie inferiori, ma non solo – da personaggi mediocri e poco puliti, in cerca di facili guadagni e che per qualche centinaio di euro sono disposti a tutto. Cammino, mentre penso che i ragazzi che fino a una domenica fa erano i miei giocatori stanno ora raggiungendo lo stadio di Pineto dove il Fabriano Cerreto gioca la sua partita del girone F di serie D.
Cammino, cammino e arrivo dove un tempo c’era il “campo di Parasecoli” vicino alla stazione ferroviaria. Da decenni ci sono i palazzi che il costruttore Parasecoli ha edificato: in quello spiazzo dove ora ci sono case e altro cemento noi ragazzi, 45 anni fa, passavamo gran parte dei nostri pomeriggi e dove io mi tuffavo, incurante dei rischi e delle ginocchia sbucciate, sul duro selciato pieno di pietre. Come in un flash back mi pare di risentire le urla di Luciano, Moreno, Marco che giocano con me e che mi tirano, da ogni posizione, nella porta improvvisata e traballante. E mi pare di rivedere gli occhi di Susanna, quella ragazza che piaceva a tutti noi ragazzi perchè era bella davvero. Anche lei non c’è più, portata via da quel mostro.
Torno verso il fiume per passeggiare ancora e più cerco di non pensare alla “mia” squadra e meno ci riesco: presto si fanno le 14,30. L’ora in cui iniziano le partite e gli arbitri fischiano l’inizio vero della vita. Potrei fare un salto da mio fratello che ha un’enoteca in centro ma sono astemio e non mi va di rompergli chiedendo il solito chinotto mentre gli avventori si chiedono cosa vada a fare un astemio in enoteca. E allora finisco il mio viaggio a piedi attraverso una domenica diversa da tutte le altre, da disoccupato del pallone. Finisco la lunga passeggiata e accendo la radio. La “mia” squadra, il Fabriano Cerreto ha perso a Pineto. Il Bologna, la mia squadra del cuore, aveva già perso il giorno prima a Roma. Non resta che l’altra squadra per cui faccio il tifo, quella allenata da un mio allievo ormai famoso che allenai venti anni fa a San Severino Marche per due anni consecutivi: Cristian Bucchi. Ha perso anche lui col suo Sassuolo, sconfitto a Napoli ma con onore da una squadra che gioca divinamente, come quel Bologna degli anni Sessanta che giocava come solo in Paradiso. È solo calcio, mi dico. È solo la mia vita.