CUPRAMONTANA- Un cerchio che si è aperto al Mamamia di Senigallia, il 18 giugno scorso, e in qualche modo si chiude domani, 1 ottobre, alla Sagra dell’Uva di Cupramontana: Willie Peyote, pseudonimo di Guglielmo Bruno, è pronto a portare sul palco della capitale del Verdicchio la musica della sua “Precaria Orchestra Sabauda, Concerti dal vivo” e del suo ultimo album, “Pornostalgia”.
Partito dalle Marche, al Mamamia di Senigallia, il suo tour la riporta nelle Marche, non lontano da lì. Che rapporto ha con questa terra?
«Ho un ottimo rapporto con le Marche, ho anche collaborato con artisti marchigiani, in particolare Giorgio Montanini è stato presente in uno dei miei dischi ed è tra tutti gli artisti uno di quelli che mi hanno più ispirato negli ultimi anni. Lui in particolare ma tutta la stand up comedy, devo ringraziare Giorgio. Ho un bellissimo rapporto con le Marche, mi fa piacere ritornare due volte, agli inizi e alla fine del tour, per cui anche con tutta una serie di esperienze maturate».
Nel brano che l’ha presentata al grande pubblico generalista del Festival di Sanremo, c’era un passaggio critico con lo stop alla musica dal vivo imposto con la pandemia: che sensazioni le ha dato questa estate di ritorno in tour e al pieno rapporto col pubblico?
«Poter trovare di nuovo quelle persone che possono ballare, saltare, anche poter partecipare fisicamente al concerto, oltre che cantando come è stato l’estate scorsa, è stato fondamentale per noi. Anche per la tipologia di concerto che proponiamo. Sinceramente sono stato molto bene, molto meglio dell’estate scorsa e credo che anche il pubblico abbia condiviso questo tipo di sensazione di benessere, grazie alla possibilità di vivere fino in fondo un concerto».
Perché “Pornostalgia”?
«Pornostalgia è la crasi fra due parole per raccontare questo aspetto anche un po’ pornografico della nostalgia talvolta, non in senso sessuale ma più perchè ci genera eccitazione. La nostalgia è rassicurante quando abbiamo paura del futuro o non si può guardare avanti, come è capitato negli ultimi due anni a causa della pandemia. Ci si va a rifugiare nei ricordi del passato, nei vecchi dischi, nei vecchi film, da qui il titolo del disco».
Nel 2015 “Io non sono razzista ma..” contenuto nel disco “Educazione Sabauda”, iniziò ad attirare l’attenzione su di lei. Sette anni dopo che pensa di quel brano nell’Italia attuale?
«Penso che sia tristemente sempre attuale a suo modo. È vero che se dovessi scrivere oggi un brano sul tema, sicuramente sarebbe diverso. Era un brano che cercava di prendere in giro i luoghi comuni sia da un lato sia dall’altro della trattazione del tema dell’immigrazione e del razzismo in Italia. Oggi credo che in Italia i toni siano a tratti peggiorati sul tema e a tratti sia, tra virgolette, meno all’ordine del giorno e sicuramente scriverei un brano diverso. Ma bisogna ricordare che è un brano scritto sette anni fa e l’Italia è cambiata più volte nel frattempo».
Chi è l’Ufo, brano che apre il suo ultimo lavoro, nella società odierna?
«L’Ufo non è una persona ma sono i discorsi intelligenti che di questi tempi sono un Ufo, nel senso che è difficile trovarli. Con intelligenti non intendo particolarmente “alti” ma semplicemente che tentano di andare in profondità dei temi e che provano addirittura a confrontarsi con idee diverse dalle loro, senza scadere nella polarizzazione e nell’aggressività che spesso vediamo quando si discute fra persone che la pensano in maniera diversa. Con discorsi intelligenti penso solo a un discorso che possa andare a fondo nelle questioni».
In “All you can hit” parla di mercato musicale come un all you can eat di sushi: combinare mercato e arte, sfida impossibile?
«Combinare arte e mercato non credo sia impossibile, anzi. Però se a questo aggiungiamo la velocità con la quale bisogna produrre e la necessità mercato stesso avere costantemente qualcosa di nuovo da vendere, si rischia di velocizzare troppo il processo e, come dicevamo prima, di non scendere troppo in profondità e non avere né la voglia né la possibilità di andare oltre una trattazione superficiale, anche artistica».
Nel brano che apre la scaletta, canta “Fare schifo è quasi un dovere morale, in un mondo in cui per forza devono vincere tutti fare schifo è una rivoluzione”: messaggio che il pubblico accoglie come liberatorio?
«Non lo so bisognerebbe chiedere al pubblico se lo vive come liberatorio o meno, io lo vivo come un messaggio sì liberatorio ma più che altro di accettazione di sé. E accettare anche che non sempre siamo al massimo, non sempre riusciamo a raggiungere l’obiettivo, che non dobbiamo avere questa pressione generata da noi stessi e dal contesto in cui viviamo di essere sempre vincenti. Talvolta bisogna anche accettare di non piacersi e non per forza trasformarlo in un vanto. Semplicemente accettare che non sempre le cose vanno come dovrebbero e che in certi casi, quando ci è imposta l’eccellenza ma non ci viene dato niente in cambio, anche fare schifo può essere un gesto rivoluzionario»