JESI – Mohamed viene dal Burkina Faso, è in Italia da meno di quattro mesi. E’ un richiedente protezione, l’iter per essere considerato un rifugiato non è ancora finito. Stessa sorte per Adam, che viene dalla Costa d’Avorio e che ha voluto raccontarci la sua storia in francese perché «Ci sono parole per descrivere piccole sofferenze ma quelle grandi restano mute». Adam è fuggito dal suo paese per motivi politici, dopo il 31 marzo 2011 le cose nel paese hanno cominciato a prendere una brutta piega: «Era la resa dei conti, gli oppositori venivano sterminati sistematicamente. Sono stato accoltellato al ventre nel tentativo di difendere mio padre aggredito dai ribelli. Lui non ce l’ha fatta e da quel giorno non è stata più la stessa vita: nel paese si perpetravano violenze di ogni genere così la mia famiglia ha deciso di farmi fuggire. Quando sono arrivato in Libia pensavo di avere una speranza e invece le cose sono andate ancora peggio: ho lavorato in una fattoria per tre mesi e quando ho reclamato uno stipendio il padrone mi ha fatto arrestare. In prigione eravamo 30 in una cella, c’erano persone che dormivano in bagno. Faceva molto caldo e ci davano un quarto d’ora per mangiare fuori, sotto il sole, a mezzogiorno. Chi moriva veniva gettato nel deserto. Grazie ad un libico sono riuscito a scappare ma quando sono arrivato a Sabrata sono stato fermato e mandato a raccogliere i corpi sulla spiaggia e a scavare buche per sotterrarli». Per questo motivo il giovane ivoriano viene seguito da uno psicologo. Non se la sente di raccontare quello che succedeva alle donne. Adesso Adam è a Jesi e sta imparando l’italiano: «La sicurezza di cui godo qui era un sogno fino a poco tempo fa».
Ha voluto raccontare la sua storia anche Mohamed che ha lasciato il suo Paese per ragioni di sicurezza: «Era una giornata come le altre quando sono uscito quella mattina. Stavo per rientrare a casa quando mi ha chiamato mia sorella avvertendomi che un gruppo armato era venuto a casa a cercarmi. Era il 2014, non so perché cercassero me, probabilmente perché avevo aiutato mia zia nella campagna elettorale. A mia sorella hanno detto che o mi arruolavo con loro o sarei morto. Da quel giorno non feci più ritorno a casa. Rimasi nove mesi nella Capitale di nascosto, poi lasciai il Paese per andare in Niger ma con le elezioni alle porte non correvo lo stesso pericolo. Dopo aver vissuto giorni di maltrattamenti e violenze in Libia, finalmente sono arrivato in Italia, un Paese libero».