Jesi-Fabriano

A Jesi si riparte: a Palazzo Bisaccioni “volare alto per ritrovare le radici”

Sabato 6 giugno alle 17 l'inaugurazione dell'esposizione di quarantuno opere dell’architetto Giuseppe Ansovino Cappelli, il quale riconduce all’integrità originaria trentuno splendidi borghi delle Marche

JESI – A cura di Giuseppe Salerno si inaugura in Palazzo Bisaccioni, sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, “volare alto per ritrovare le radici”, esposizione di quarantuno opere dell’architetto Giuseppe Ansovino Cappelli il quale riconduce all’integrità originaria trentuno splendidi borghi delle Marche (Belforte, Belvedere Ostrense, Camerino, Castello di Pitino, Castelraimondo, Castignano, Cerreto d’Esi, Corridonia, Cossignano, Fabriano, Fermo, Frontino, Frontone, Jesi, Loreto, Macerata, Mondavio, Mondolfo, Montefiore dell’Aso, Moresco, Pioraco, Piticchio, Pollenza, Recanati, Ripatransone, S. Severino Marche, Senigallia, Tolentino, Treia, Urbino, Urbisaglia).

Volare alto per ritrovare le radici è la missione abbracciata da Giuseppe Ansovino Cappelli che, a tratto forte di penna e matita, realizza su carta Fabriano queste tavole bianche e nere di fronte alle quali, in scenari architettonici essenziali e silenti di dechirichiana memoria, respiriamo l’equilibrio e la grandezza di un pensiero collettivo.

Nato a Fiastra e docente di composizione architettonica presso la facoltà romana di Valle Giulia, Giuseppe Ansovino Cappelli dedica queste opere alla sua regione d’origine.

Con il patrocinio della Regione Marche, del Comune di Fabriano, del Museo della Carta e della Filigrana, dell’Associazione Culturale InArte e del Rotary Club di Jesi, la mostra verrà presentata al pubblico nella sala conferenze di Palazzo Bisaccioni sabato 6 giugno alle ore 17.00 e sarà aperta al pubblico fino a domenica 28 giugno (ogni sabato e domenica, ore 09.00/13.00 15.30/19.30).

«Io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere o il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi belati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma impressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del consumo».

«Queste parole di Pier Paolo Pasolini le ho trovate su Facebook, riprese in un post di Giuseppe Ansovino Cappelli – spiega il curatore Giuseppe Salerno- nessun testo avrebbe potuto meglio introdurre la mostra e la figura di questo artista che dell’amore per l’architettura ha fatto la sua ragione di vita e di insegnamento».

«Un ambito quello dell’architettura al quale, congiuntamente agli innegabili meriti, vanno ascritte gravi responsabilità quando, nel rapporto con il mondo di superficie, la gestione dello spazio ha vieppiù incarnato l’aspirazione umana a dominare le forze della natura e l’assurda presunzione di poter tutto controllare e plasmare. Fondamentalmente al servizio dei potenti, al pari di tutta l’arte figurativa sino alla prima metà dell’800, un architetto dimostra di essere tale quando afferma la sua visione anche nei confronti del committente cui compete dettare le regole. Sta a lui ricavare spazi vitali di espressione all’interno degli ambiti costretti. Altra storia è quando il chiamato a progettare abbracci l’ideologia del potere e faccia proprie altrui visioni. Privo di un’etica che lo ponga in rapporto con gli equilibri dell’universo, è l’uomo/architetto ad aver conflitto, in tempi recenti, con condizioni ed andamenti naturali ingegnandosi ad incanalare e deviare il corso delle acque, a contrastare gli andamenti delle maree, a perforare le montagne, a creare isole, a mettere in comunicazione terre e ad erigere barriere».

«E’ ancora a lui che una società mossa unicamente dal profitto ha chiesto di rendere possibile la massima concentrazione di esseri umani in città verticali che, funzionali ai bisogni della produzione e del consumo, sono le prigioni nelle quali non ci è dato distinguere il giorno dalla notte, il caldo dal freddo. In combutta con gli interessi della finanza internazionale è l’architettura ad aver sottratto l’uomo all’ambiente naturale, all’alternarsi delle stagioni, alla pioggia che bagna ed al sole che scalda costringendoci in ambienti confortevoli al cui interno il tempo, annullata ogni diversità, scorre sempre uguale».

«Architetto che i classici li ha letti, che ha raccolto l’uva nella vigna ed ha assistito con emozione al sorgere ed al calare del sole sui campi, Giuseppe Ansovino Cappelli vive la propria estraneità nei confronti di questa società massificata che non concede spazio al pensiero ed all’emozione individuali; società che, dimenticato il senso della vita, va ogni giorno di più alla deriva. Artista nell’animo, disprezza quel fare scollegato dal sentire profondo che ha prodotto la crescita incontrollata dei grandi agglomerati urbani nei quali si sono succeduti interventi distruttivi e sostitutivi che hanno compromesso ogni precedente armonia d’insieme riducendo le aree cittadine a luoghi dell’accumulo e della coesistenza. Nostalgico di una idealizzata integrità perduta, Cappelli, uomo/architetto/disegnatore/sognatore, sorvola con la gomma e la matita piccoli e grandi borghi delle amate terre marchigiane per restituirci, liberate da rimaneggiamenti e superfetazioni inquinanti, architetture rivisitate nella loro essenzialità, circoscritte, protettive, protagoniste un tempo di quel dualismo città/campagna oggi sconosciuto».

«Al “Less is more” sembrano rifarsi questi suoi interventi giustizialisti su strutture che ancor oggi, nonostante tutto, permangono quali testimonianze preziose d’una concezione urbanistica collettiva, spontanea, a misura d’uomo. Volare alto per ritrovare le radici è la missione abbracciata da Giuseppe Ansovino Cappelli che, a tratto forte di penna e matita, realizza su carta Fabriano queste sue tavole bianche e nere di fronte alle quali, in scenari architettonici essenziali e silenti di dechirichiana memoria, respiriamo l’equilibrio e la grandezza di un pensiero collettivo».