CASTELPLANIO – «L’opera d’arte è un mezzo, il fine è sempre l’uomo». Nella sede della comunità terapeutica dell’Oikos, a Castelplanio, questo pensiero si è fatto strada materializzandosi nel manufatto che l’artista anconetano Andrea Papini ha realizzato con la “complicità” di un gruppo che lì risiede: “Opera al nero“.
«Persone che vivono un determinato stato per un breve periodo e in quello stato in cui sono transitano, stanno scoprendo cose di se stessi – spiega – e hanno una sensibilità che è riaffiorata, come se si fossero svegliati improvvisamente».
Andrea è con loro, con Lucia, Simone, Maurizio, Maria Laura, Dorin. E con loro ha condiviso un percorso iniziato senza una meta. Partendo insieme, viaggiando insieme, stando insieme, lavorando insieme. E concludendo insieme.
L’ESPERIENZA
«Abbiamo iniziato dal caos creando un’origine – spiega Andrea Papini -, senza un’idea predefinita, in libertà con i pensieri personali di ognuno. Concentrati, però, su dei piccoli fogli, su alcune immagini. Ognuno ha poi fatto dei “pezzi” con il materiale che portavo. Come se iniziassimo a parlare. Nel corso del tempo ho visto che era molto meglio lavorare insieme, mischiare questa energia. Nell’opera c’è qualcosa di ognuno di loro».
«Volevo qualcuno – continua – che non avesse un’idea estetica e formale dell’arte. E ho avuto questa opportunità, di entare in contatto con questo gruppo e ho potuto osservare il lavoro che di volta in volta andava avanti. Prima ognuno per sè poi tutti insieme e io sempre con loro. La mia idea iniziale era: da solo non la faccio quest’opera. La faccio con persone che non conosco e che non hanno nulla, non gli interessa nulla dell’arte».
L’opera conclusa ha preso corpo strada facendo «Io avevo fatto un disegno che era una specie di spirale – racconta Lucia -, idea di partenza. Rappresentava un po’ il mio inferno personale, il buco nero che ho dentro con dolore e paura che ti schiacciano e non ti fanno vedere vie d’uscita. Ti ci perdi. Il modo migliore per rappresentare la spirale è darle una profondità e, alla fine, è diventata una serie di scatole, dalla più grande alla più piccola, un po’ il simbolo della facilità con la quale ti perdi. È cambiato anche il significato che avevo attribuito: partenza negativa per arrivare alla speranza di uscirne in qualche modo con il contributo di tutti gli altri, collaborando e condividendo».
L’idea di Andrea Papini è stata accolta «Con curiosità – spiega Maurizio -. Dipingo, mi piace. Credevo che si trattasse di qualcosa del genere, invece poi ho scoperto che occorreva lavorare un materiale. E man mano che si andava avanti mi è piaciuto e ho continuato».
ll materiale è il metallo, nudo, grezzo, semplice, in lastra ma che resiste. Permette una certa possibilità di sviluppo: si può piegare, tagliare, numerare. Può essere lavorato con una mano e con altri mezzi molto semplici, come scalpelli e martelli.
«Soprattutto abbiamo lavorato con il fuoco – dice Andrea Papini – che permette un approccio molto diverso perché fonde, ha un’energia enorme. Ed è molto sensibile. Loro si sono trovati in mano i mezzi che io gli ho dato senza sapere, inizialmente, cosa farci. Ma avevano una presa pronta e la mente lucida».
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La scelta di fare il lavoro nel laboratorio dell’Oikos «è dovuta al fatto principale – sottolinea Papini – di poter far passare un’opera sotto la scrematura di altre persone. Quindi condividere questo, che è la cosa fondamentale per me, per il mio percorso. Non volevo avere mani che conoscessero già la materia. È stata la mia sfida e il mio piacere».
Ascoltare chi ha partecipato ti porta anche a leggere nei loro occhi la soddisfazione di esserci stati lì, perché, come spiega Simone «il messaggio che ho recepito sin da quando si è presentato Andrea è stato quello di poter esprimere le emozioni che abbiamo dentro tramite un qualcosa che si può toccare. È stato coinvolgente».
Lucia è stata mossa dalla curiosità: «Non ci è stato spiegato nei dettagli in cosa consisteva questa esperienza, una cosa nuova. Sapevo che si trattava di un lavoro attraverso l’arte ma che comunque non era legato alle capacità artistiche come il saper disegnare. Qualcosa attraverso la quale potevi “riagganciarti” a te stesso. Mi è sembrato interessante e, infatti, lo è stato. Io ho bisogno di stimoli e mi è sembrata una buona opportunità».
E anche per Maria Laura la spinta è stata «sperimentare qualcosa che non conoscevo. Questo ha destato anche in me la curiosità. Poi ho scoperto un lavoro che non avevo mai fatto, imprimere su materiale quello che sentivo, i miei sentimenti. Mi è piaciuto».
Il comune denominatore: eprimere quello che si ha dentro. E anche Dorin lo sottolinea: «A me piace tanto disegnare e appena ho sentito la parola artista mi ha preso voglia di partecipare. Alla fine ho trovato la parte collaborativa con la comunità, siamo stati insieme mostrando le nostre debolezze, la nostra forza, i nostri sentimenti, per trasportarli in un’opera d’arte. È stato molto piacevole esprimere quello che abbiamo dentro. Io ho affrontato la paura che ancora ho ma tramite questo lavoro sono riuscita a trovare anche un po’ di coraggio».
LE MONETE
«Sono state incise – ricorda Papini – nel periodo in cui dovevamo fare ogni lato dell’opera. Ci si vedeva la mattina, io con ognuno di loro, una mezz’ora, e ognuno di loro con l’idea di cosa volesse far scrivere sulla “sua” moneta. Ma non sapevano che, alla fine, sarebbero tutte uscite da qui, dall’Oikos, da Castelplanio. Come un procedere verso l’oscurità nella quale ogni moneta è stata depositata».
Un giorno, infatti, sono usciti in mare, al largo del porto di Ancona, e le monete hanno preso la via dei fondali.
«Le abbiamo gettate in acqua. Quello che tu fai deve sparire. Non deve esserci più per far venir fuori te stesso. Una metafora semplice. Le monete esistono, sono in un luogo e stanno marcendo, sparendo. Sinché questo processo è in atto noi siamo liberi di andare in un’altra direzione. Così l’opera non diventa un idolo perché il suo ruolo è quello di essere un tramite. Altrimenti si venera. E non è questo lo scopo».
E se l’opera d’arte è un mezzo perché il fine è sempre l’uomo, terminiamo così come eravamo partiti perché lo scopo, fa capire Andrea Papini «È quello di incidere te stesso, non il metallo».