Ridere fa bene al corpo e all’anima: lo conferma lo Yoga della Risata, disciplina nata in India nel 1995. Basta esercitarsi guidati da un teacher, provando a ricordare il ridere spontaneo che avevamo da bambini.
Lo scorso lunedì 8 aprile sono iniziati all’Asur 5 i corsi di Yoga della Risata. Quattro incontri, l’ultimo il 7 maggio, della durata di due ore ciascuno, rivolti al personale sanitario del Dipartimento di Salute Mentale del nosocomio di Jesi. A tenerli, nell’ex ospedale Murri, è Jessica Ceresoli, infermiera e “Teacher” di Yoga della Risata. Si tratta di una sperimentazione avviata proprio quest’anno all’interno del programma formativo rivolto a medici, infermieri e operatori socio-sanitari dell’Educazione continua in medicina.
Ma perché questa disciplina permette di affrontare pazienti e colleghi nel modo migliore, evitando la sindrome da burnout (esaurimento da lavoro)? Quali sono i benefici?
Lo spiega Jessica Ceresoli, nell’intervista che segue.
Lei è un’istruttrice di Yoga della Risata, in gergo “Teacher Laughter Yoga”. Che tipo di disciplina è e da dove viene?
«Lo Yoga della Risata nasce nel 1995, inventato dal dottor Madan Kataria, medico indiano che studiava i benefici del ridere. Kataria si riunì in un parco pubblico di Mumbai e, in compagnia di altre persone, iniziò a raccontare barzellette. Ben presto però le barzellette finirono, divennero volgari, o non facevano più ridere. Il gruppo si sciolse. Ma il medico, tenace, volle continuare. Inventò così lo “Yoga della Risata”. La disciplina ha questo nome perché dello “yoga” riprende la respirazione. “Della risata” perché ha come fine la “risata incondizionata”, cioè quella che sorge spontanea, senza ricorrere all’uso di comicità o umorismo».
Lei come s’è avvicinata a questa disciplina? Chi è stata la sua “guida spirituale”?
«Ero già infermiera. A parlarmi di Yoga della Risata fu una mia compagna del corso di Counseling. Era una ragazza molto schiva e sulle sue, se ne stava spesso per conto proprio. Col passare del tempo però ho visto in lei un cambiamento: faceva gruppo ed era più sorridente. Davvero tutt’altra persona. Mi raccontò allora che era diventata “Teacher di Yoga della Risata”. Per la prima volta sentivo quell’espressione, e m’incuriosì molto.
Intrapresi così la prima formazione, per diventare “Leader”: un intensivo di due giorni che aveva come obiettivo il riuscire a ridere per dieci minuti di fila. In realtà non ho un bellissimo ricordo di quel periodo: avevo avuto un incidente in macchina proprio prima del corso. Nonostante questo dovevo continuare a guidare, anche con la neve. Durante le sessioni non mi veniva molto naturale ridere, anche se in passato ero sempre stata una persona solare. Per questo mi arrabbiavo ancora di più: vedevo tutti gli altri che ridevano, mentre io ero bloccata».
Questo blocco però l’ha aiutata a proseguire nel percorso…
«Sì, infatti. Il blocco che avevo s’è rivelato per me un bene: m’ha spronata ad andare avanti e a fare anche i cinque giorni residenziali da “Teacher”, titolo che permette di diventare formatore dei Leader. Sono così partita alla volta di Reggio Emilia».
Da lì in poi tutto è andato liscio? O ci sono stati altri momenti di tensione?
«Proprio durante la formazione residenziale ho avuto un crollo: sono scoppiata in una crisi di pianto. Ma è stato lo sfogo decisivo. Quei cinque giorni m’hanno permesso di ricominciare. Anche di fare gruppo: stavamo insieme e ridevamo dalla mattina alle 7 alle 11 di sera, alternando le risate alle parti teoriche. Così, dal primo maggio scorso, sono ufficialmente “Teacher”».
Il mondo di oggi ride? Quanto c’è bisogno di ridere?
«Secondo me quello di oggi non è affatto un mondo che ride, ma ce ne sarebbe molto bisogno. Come ho potuto vedere sia su me stessa che sugli altri ridere ha moltissimi benefici: migliora lo stato di salute, l’umore, ha effetti benefici anche sul posto di lavoro. Per evitare il burnout, ma anche più semplicemente per favorire la coesione all’interno del team e riportare un clima più sereno e disteso».
Il bambino ride in modo spontaneo e privo di forzature. Crescendo invece si disimpara a ridere?
«Sì, decisamente. Crescendo ci mettiamo delle maschere, per il bisogno d’essere seri e di mantenere una certa “dignità”. Lo scopo del Teacher Laughter Yoga è allora anche quello di tirare fuori il “bambino interiore”, per poter ridere liberamente e superare le corazze che ci siamo costruiti di fronte a dolori, sofferenze, frustrazioni e sensi di colpa».
In cosa consiste una sessione di Yoga della Risata?
«La prima fase è quella di riscaldamento: sono tutti momenti iniziali che preparano il corpo a ridere spontaneamente. Ad esempio si usa il clapping (ovvero si battono le mani) e si lavora sulla voce. Ci sono poi le parti dedicate alla respirazione e al cosiddetto “joy cocktail”. Il cocktail della gioia dove i quattro elementi sono ridere, cantare, giocare e ballare. Nella scelta dei giochi si riprendono anche delle tecniche teatrali. Si tratta infatti di una parte attivante di collegamento al resto del gruppo. Segue poi la parte della meditazione della risata: in cerchio, seduti a terra, si ride per dieci minuti senza alcun motivo, solo col contatto visivo. La parte finale è poi di rilassamento».
Lei è anche infermiera. Quali sono i possibili usi sanitari dello Yoga della Risata? Si può praticare sia col personale che come forma di riabilitazione dei pazienti?
«Lo Yoga della Risata è molto versatile. Si può usare con gli anziani nelle case di riposo (trattando Alzheimer e demenze), nelle carceri, con i bambini, con genitori e figli insieme. Ma anche col personale sanitario, come forma di prevenzione dello stress e per favorire il benessere psico-fisico. Ovviamente in base ai destinatari cambierà il tipo di sessione: ad esempio con gli anziani durerà 40 minuti invece di un’ora e si farà da seduti.
Per quanto riguarda i pazienti, io lavoro in ambiente psichiatrico e non mi addentrerei a fare attività in fase acuta. Dal momento che c’è anche una parte attivante, lo Yoga della Risata non è indicato per persone bipolari o iperattive. Si adatta piuttosto a chi soffre d’una leggera ansia o di depressione».
Ci sono fasce della popolazione un po’ meno raggiungibili da questa disciplina?
«È piuttosto difficile “agganciare” gli adolescenti. Lo Yoga della Risata ci fa tornare bambini. L’adolescente invece è in fase di passaggio verso l’età adulta, fa fatica a lasciarsi andare oppure ad accettare di tornare bambino. Prevalgono in lui la ribellione e la volontà di crescere».
Nelle sessioni di Yoga che ha tenuto, ci sono stati gesti o parole particolari che non dimenticherà?
«Mi colpisce spesso vedere persone che nel momento della condivisione si aprono, anche arrivando a piangere, e che poi alla fine dell’incontro hanno un viso ben diverso, più rilassato. Anche se paure e frustrazioni non si esauriscono in un’ora di Yoga della Risata, un graduale cambiamento nello stato d’animo c’è.
Ricorderò sempre una signora affetta da sclerosi multipla: aveva una grande voglia di ridere e una carica d’energia superiore a quella di tutti gli altri corsisti. Anche quando noi camminavamo o ci spostavamo nello spazio, lei seguiva gli esercizi da seduta, ridendo e battendo le mani.
Inoltre, altra particolarità è che le differenze d’età o di ruolo non destabilizzano il gruppo, ma anzi si assottigliano: crollano muri generazionali o barriere dettate dalle gerarchie. Nello Yoga della Risata non esistono più categorie tra le persone: ci mettiamo tutti in gioco e siamo tutti sulla stessa barca. Ogni maschera cade».