JESI – Isolamento sociale, regole di vita che non ci appartengono, vivere costantemente nella paura: la pandemia ha cambiato radicalmente il nostro modo di affrontare la vita quotidiana, con conseguenze pesantissime sulla psicologia di ciascuno. A soffrire maggiormente della condizione di reclusione sociale sono i giovani, ma anche la cosiddetta “terza età” ha importanti ripercussioni, soprattutto in questo caso per la paura della morte. Ora che i vaccini rappresentano un evento concreto, si inizia a fare i conti con le macerie lasciate dal trauma prolungato nel tempo dovuto al perdurare del virus. Ne abbiamo parlato con il Direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta 2, dottor Massimo Mari.
«La situazione è ancora in evoluzione per cui dati certi sulle conseguenze della pandemia nella società con dei numeri e delle statistiche sarebbe prematuro e poco opportuno fornirne – dice lo psichiatra –. Sarebbe insomma, ancora scientificamente non corretto. Possiamo però dare una lettura attenta del fenomeno rapportato alla nostra realtà territoriale. Quel che emerge in maniera netta è il notevole aumento del tasso di mortalità, poiché il virus Covid-19 ha ucciso soprattutto le persone anziane. Per quanto riguarda il disagio legato alla segregazione domiciliare gli anziani apprezzano di più lo stare in casa nelle loro comodità, questo è un aspetto che destabilizza soprattutto i giovani».
L’aspetto emotivo ha inciso molto soprattutto per gli anziani ospiti delle case di riposo?
«Assolutamente, in questo caso quando una persona è residente in una istituzione il rischio contagio e le conseguenti morti a catena sono state impressionanti. Pertanto purtroppo abbiamo dovuto assistere alla trasformazione delle Rsa e Case di Riposo in contenitori chiusi: bene la videochiamata e la videoconferenza con i propri cari, ma di certo non è lo stesso del contatto umano con i familiari».
E l’impatto sulla psiche?
«Per avere la vera dimensione patologica e psicopatologica della comunità occorre un’analisi della farmaco-economia, poiché tramite la misurazione dell’uso di psicofarmaci comparato alle annualità precedenti il Covid avremo un indicatore indiretto del disagio sociale piuttosto attendibile. È possibile tracciare una valutazione dall’analisi dell’uso di sedativi, ansiolitici, neurolitici, antidepressivi… ciascun farmaco ha una funzione specifica e il loro eventuale aumento di consumo potrebbe dare una lettura del tipo di disagio sociale nel tempo piuttosto attendibile. Sarebbe bene comunque che ci si prenda cura di sè prima che la depressione abbia il sopravvento arrivando anche alle conseguenze nefaste come quelle che la cronaca di tutti i giorni ci racconta. Una consulenza psicologica breve orientata al trauma quando ci sentiamo spiacevolmente diversi, può aprire migliori spazi di mentalizzazione delle conseguenze di questo trauma prolungato nel tempo».
Anche il perdurare di questa pandemia e delle regole che stravolgono la nostra vita quotidiana ha un peso?
«Il fatto che la crisi sia tanto prolungata nel tempo va a toccare la nostra capacità di speranza e di cambiamento. C’è un termine spagnolo che ben descrive questa condizione, “desesperanzados”, che non ha un corrispettivo in italiano per tradurlo. Non indica i disperati, che comunque hanno ricordo, cognizione, nostalgia di un benessere passato, ma piuttosto l’esistere senza speranza, non avere voglia di uscire, di fare le cose, di sperare e progettare il futuro. La pigrizia è un equivalente depressivo ed è un risultato dell’abitudine all’obbligo, che è divenuto routine, del non fare. Questa nuova pigrizia ritengo sia la manifestazione soggettiva della perdita della capacità di sperare, di questa perdita di una visione di un futuro accettabile: “Desesperanzados”».