JESI – «Ci stiamo organizzando, non senza improvvisazione, perché temiamo che la “bolla” scoppierà fortissima fra qualche giorno». Silvia Salvoni è un’infermiera specializzata originaria di Angeli di Rosora. Da quattro anni vive a Leeds, quasi 800 mila anime nel cuore del Regno Unito, e lavora al Mid Yorkshire Hospitals Trust, uno degli ospedali più grandi della regione di riferimento, nel reparto di pronto soccorso (Accident & Emergency). È molto preoccupata. Conosce bene la situazione in Italia e teme che, prima o poi, l’Inghilterra dovrà farci i conti.
«Inizialmente, il Coronavirus è stato preso molto, molto, molto sottogamba qui – racconta Silvia Salvoni -. Finalmente lo scorso 20 marzo, Boris Johnson si è deciso a chiudere tutti i luoghi di aggregazione quali palestre, ristoranti, ma soprattutto pub. E quella sera, in pronto soccorso, è stato un disastro, fra malati di covid19, che iniziano ad arrivare, e inglesi che hanno esagerato con l’alcol. Qua non siamo ancora in quarantena, possiamo uscire e girare in macchina, non è stato decretato il lockdown totale. Negli ospedali, invece, la situazione è differente. Le direttive cambiano continuamente, di ora in ora. Stanno costruendo muri, porte temporanee, riconvertendo reparti. Credono, insomma, che questa epidemia durerà a lungo. Noi, da parte nostra, improvvisiamo di giorno in giorno. Il mio reparto è stato suddiviso in due sezioni per isolare i malati di Covid-19. La sensazione è che si stia correndo ai ripari in maniera un po’ approssimativa dopo aver sottovalutato per troppo tempo questo virus. Anche l’afflusso in pronto soccorso è cambiato».
L’infermiera 38enne racconta infatti che, un paio di settimane fa, anche a seguito delle immagini che giungevano dall’Italia, vi è stato un afflusso abnorme in ospedale di gente che voleva fare il tampone, «anche di persone che avevano tossito una volta in tre giorni», racconta. «Poi il governo ha chiesto di non recarsi al pronto soccorso, lanciando sostanzialmente il messaggio che se non si ha il Covid-19 si rischia di prenderlo nelle sale d’attesa e in corsia. Così non è più venuto nessuno. Da venerdì scorso, però, cioè da quando sono stati chiusi i pub, stanno arrivando molte persone».
In Italia si parla tanto di mascherine, guanti, ventilatori. La situazione nel Regno Unito? «Qui siamo diecimila anni addietro – osserva preoccupata Silvia Salvoni -. Indossiamo mascherine chirurgiche senza filtri, grembiuli usa e getta di plastica, guanti normali. Siamo esposti a tutto e, al momento, non ci fanno il tampone. Relativamente alle terapie intensive, il problema è analogo all’Italia: i posti letto non sono sufficienti. L’epidemia è stata fatta andare troppo avanti, a mio parere. Non si conosce la reale entità del contagio. Il tampone, ad oggi, viene fatto solo alle persone più gravi che ricoveriamo. Gli altri, che potrebbero essere lo stesso positivi, vengono rimandati a casa, soprattutto i giovani».
Chiuse anche le scuole. «Ma non per i figli dei cosiddetti key-workers (medici, infermieri, forze dell’ordine, etc.) – spiega l’infermiera di Angeli di Rosora -. Alcuni miei colleghi hanno tuttavia deciso, autonomamente, di non mandarli, ma non possono stare nemmeno con i nonni perché sono quelli a rischio. Insomma, si vive alla giornata e c’è tanta confusione. Temiamo che la bolla, come è successo anche in Italia, possa scoppiare a breve. Non ci sentiamo del tutto preparati, ma facciamo il possibile per farci trovare pronti, organizzandoci tra noi e approfondendo le esperienze provenienti dai paesi, Italia in primis, che sono qualche giorno avanti nella gestione del coronavirus. Speriamo bene».