ANCONA – Ha vinto il concorso di giornalismo Gabicce Donna ed è stata premiata (con mille euro) sabato, 23 luglio, a Gabicce Mare. Ha alle spalle una laurea in Storia (conseguita a Bologna) e un master alla Scuola di giornalismo di Torino. Lei è Ludovica Merletti, 28 anni appena compiuti, che presto approderà al quotidiano Repubblica, per uno stage alla Gedi, a Roma.
Nata e cresciuta a Jesi fino al termine degli anni del liceo, Merletti non è solo una capace giornalista, ma anche un’appassionata attivista. Si batte contro la violenza di genere ed è attenta alla questione femminicidi. Perché uno dei modi migliori per combattere questi fenomeni, probabilmente, è anche quello di parlarne, e parlarne bene.
«Dieci giorni», si chiama così il suo podcast, disponibile – tra le altre piattaforme – su Spotify ed Apple podcast. «Dieci giorni in cui la madre di Giordana, uccisa dal suo ex a 20 anni, non ha potuto dormire a casa propria, perché era assediata dai giornalisti». Telecamere, microfoni, taccuini e smartphone: sono queste le armi dei cronisti, coloro che combattono con la parola, ma talvolta con «poco rispetto per le persone».
«Ti ritrovi lì, sul luogo del delitto. Porgi un microfono per qualche dichiarazione, ma coloro che parlano di solito conoscono poco la vittima. Succede così, ve lo assicuro. Più che all’omertà, il silenzio del femminicidio è dovuto alla componente super privata di questo tipo di delitto»
«Serve un cambio di paradigma, anche nel linguaggio. Il modo di concepire il giornalismo è sbagliato. La notizia non è un prodotto, il giornalismo non dev’essere, secondo me, un’azienda come tutte, che risponde alla logica dei click, ma molto di più». D’altronde, dietro ogni notizia ci sono delle persone.
Lo sa bene Vera Squatrito, mamma di Giordana Di Stefano, uccisa dal suo ex in Sicilia, nel 2015. Rimasta incinta a 15 anni, lei lo aveva già denunciato per stalking, ma al processo (ancora in corso) quella giovane donna non parteciperà mai. Morirà infatti alla vigilia della prima udienza. «Arrestato, ora l’omicida sta scontando una condanna a 30 anni di detenzione», spiega Merletti.
Un podcast, il suo, fatto di verità, in cui si racconta una vicenda come tante, perché «purtroppo i femminicidi sono frequentissimi e si stima che a morire sia 1 donna ogni 3 giorni. E chiaramente – prosegue la giornalista – c’è pure da considerare tutta la violenza sommersa, che col covid è aumentata vertiginosamente, costretti com’eravamo dentro casa».
E pensare che all’epoca di Giordana non c’era neppure il Codice rosso. Dopo la querela, lui sparì per un po’, poi si fece vivo e la uccise. «Abolire il termine femminicidio in nome di una fantomatica uguaglianza tra i generi è una sciocchezza – dice Merletti – perché femminicidio è ammazzare una donna in quanto tale».
Secondo lei, quella contro il femminicidio e la violenza di genere è una battaglia che passa perfino dalle parole: «È sbagliato che la stampa racconti e fornisca ai lettori dettagli morbosi e raccapriccianti o che, ancora, si usino termini come tragedia o raptus. Il giornalista non deve scrivere ciò che vuole leggere il lettore. Le morbosità lasciamole ai gialli di Camilleri. Inutile anche cercare di indagare ossessivamente sul movente, perché gli autori di questi gesti hanno alla base un’idea radicata della donna come oggetto. Un concetto di proprietà privata della donna, di possesso malato e sistemico».
Questa, a ben vedere, è la storia di tre donne: Giordana, sua madre Vera, che ora gira per le scuole a testimoniare i fatti, e Ludovica, che li racconta. Lo ha sempre fatto, qua e là per i giornali. Il concorso in Rai? «Ci proverò, certo, ma non do troppa importanza alla testata. Mi basta poter raccontare liberamente ciò che mi interessa».
«Che poi non è vero che il giornalismo stia morendo per colpa dei social. I social sono solo dei grandi aggregatori di notizie. Però, il giornalismo è altro». Un consiglio ai giovani che si avvicinano a questo settore? «Non ascoltate chi vi scoraggia, anche se è vero che si lavora tanto e che si resta con poco in tasca». Paghe da fame, per i collaboratori freelance, e responsabilità penale per ciò che scrivono: «Eppure, il contratto di giornalismo non è poi così male, solo che non lo si fa quasi più e nessuno che parli dei nostri trattamenti retributivi. Perché poi dovremmo scriverne noi sulla stampa. Noi, i cronisti pagati a pezzo…e fa un po’ ridere, no?».