JESI – Cittadinanza onoraria a Liliana Segre, la senatrice a vita scampata dall’inferno dei campi di concentramento nazisti. A lanciare l’idea, proprio nella giornata in cui si è deciso di metterla sotto scorta per le minacce ricevute, è stato il presidente del consiglio comunale, Daniele Massaccesi, oggi pomeriggio in aula consiliare, suggerendo a maggioranza e opposizione di formalizzare una mozione per riconoscere l’onorificenza alla parlamentare che, all’età di 14 anni, fu deportata ad Auschwitz-Birkenau.
«All’odio si risponde con semplicità, fermezza e con gesti responsabili per dimostrare concretamente di essere contro l’antisemitismo e il razzismo», ha detto il presidente Massaccesi nell’illustrare la sua proposta, invitando appunto forze di governo e di minoranza a trovare una sintesi per poter conferire la cittadinanza onoraria a Liliana Segre. Tutti sono intervenuti per sottolineare la bontà dell’istanza, esclusa la Lega. Il coordinatore del civico consesso ha letto per l’occasione la lettera che la senatrice a vita scrisse nel 1944 sulla prigionia nel lager nazista, consegnata al Corriere della Sera.
Ecco il testo: “La stanza era grande, lunga e stretta e vuota completamente. C’erano due porte e una finestra piccola, vicino alla finestra la stufa. La stufa era di ferro, era appena tiepida ma quel leggero tepore era annullato dalla corrente gelida che veniva dalla finestra. Stavo attaccata alla stufa e guardavo fuori la distesa di neve e le macchie indistinte delle prigioniere in fila, lontano verso i fili spinati. Avevo una consapevolezza nuova della mia nudità e del mio cranio rasato. La rasatura era stata crudele, la macchinetta passava duramente sulla povera testa quasi ormai pelata. I miei capelli neri lunghi, ricci, ribelli erano per terra e non avevo potuto tenere per me neanche il nastrino verde che li legava nella mia vita precedente. Non ero mai stata così sola e così infelice. Le ore passavano e ogni tanto entravano dei soldati, mi guardavano, ridevano, scambiavano una battuta di spregio. Avevo fame, sete e freddo. Nessuno mi diede nulla né da bere né da mangiare né da asciugarmi, dopo la doccia rimasi bagnata mentre aspettavo che i miei stracci venissero disinfestati. La scoperta di un pidocchio sulla mia faccia e il mio gesto di ribrezzo disperato avevano attratto l’attenzione della kapò che mi aveva mandato subito alla disinfestazione e alla rasatura: io, la fortunata alla quale un mese prima all’arrivo a Birkenau non erano stati tagliati i capelli per un capriccio della sorvegliante, nell’invidia delle altre prigioniere. La mia faccia era terribile riflessa nel vetro. Mi facevo paura, volevo gridare, volevo piangere, volevo urlare la mia disperazione a quel cielo grigio: era inutile. Dopo ore entrò una ragazza. Avrà avuto forse due o tre anni più di me, anche lei nuda e disperata. Si avvicinò alla stufa e ci guardammo con pietà fraterna, già amiche, già sorelle, con occhi adulti. Tentammo in tutti i modi di parlare ma non ci capivamo assolutamente (forse era cecoslovacca o ucraina) e allora non so più a chi delle due venne in mente di tentare con il latino scolastico delle nostre prime frasi delle scuole medie, così lontane da lì. E fu fantastico poterci scambiare dolci brevissime frasi: Patria mea pulchra est («La mia patria è bella»), Familia mea dulcis est («La mia famiglia è dolce»), Cor meum et anima mea tristes sunt («Il mio cuore e la mia anima sono tristi»). Fu molto importante quel momento e anche se non ho mai saputo il nome di quella ragazza, con lei ho vissuto un’altissima affinità spirituale e la massima condivisione in una condizione umana bestiale. Grazie amica ignota, spero che tu sia tornata a raccontare di quel giorno di marzo 1944 nella «Sauna» di Birkenau”.