JESI – Lo scorso dicembre l’Asur Area Vasta 2 ha vinto il premio “Il coraggio di agire” bandito da Federsanità Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per l’intervento in Comuni disastrati dal sisma del Centro Italia.
Come si gestisce il disagio psicologico della popolazione terremotata? E a che punto è la situazione oggi nella nostra regione? Ce lo racconta il dottore Massimo Mari, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Area Vasta 2 e coordinatore degli interventi per il supporto psicologico. Con la sua equipe si è occupato anche della tragedia di Corinaldo e del “caso Traini” a Macerata.
Ecco la sua intervista.
Per cosa si caratterizza un evento catastrofico, oggetto della Medicina delle catastrofi?
«La catastrofe è un trauma collettivo che coinvolge la comunità nel suo insieme. Ha risonanza sociale. Per esempio, l’evento di Pamela a Macerata è capitato a una singola persona, ma per la sua efficacia simbolica ha chiaramente una dimensione catastrofica. La dimensione della catastrofe è qualcosa di più della somma dei singoli traumi e ha una dimensione collettiva».
Cosa ci può dire di quell’8 dicembre alla Lanterna Azzurra di Corinaldo?
«È emblema di come la catastrofe colpisca l’aspetto comunitario della persona. Tutte le generazioni precedenti a quella dei ragazzi coinvolti erano cresciute alla Lanterna Azzurra. Era il punto di riferimento di ogni corinaldese, non solo adolescente».
Quali altre emergenze ha avuto modo di affrontare direttamente?
«Nel corso della mia vita e della mia esperienza lavorativa ho attraversato dieci diverse catastrofi. Tre negli ultimi due anni. Una è il terremoto, in cui sono intervenute anche moltissime forze di volontariato».
Come si coordinano le forze in campo in un’emergenza come il terremoto?
«Vanno coordinate con un brainstorming iniziale e una divisione dei compiti. Si parte da teorie di intervento, setting analitici e schemi terapeutici, che però vanno sempre ricalibrati in base al singolo nuovo contesto».
Come sono state coordinate le forze nel vostro progetto?
«Nel primo coordinamento andai direttamente sul posto e divisi i compiti tra tutte le associazioni presenti. Organizzammo le azioni in quattro centri di intervento e responsabilità: sanitario, servizio alla persona, famiglie con minori e supporto psicologico. C’erano membri della mia equipe come Sauro Santini e Fabio Marchi, ma ci siamo avvalsi anche di colleghi formati a suo tempo per il terremoto dell’Aquila, come Emanuele Sirolli. Furono svolti incontri e assemblee cittadine.
Venne poi il terremoto del 2016, che non ha ucciso le persone, ma le città. E poi il terzo, quello di Rigopiano. In un giorno solo avemmo 40.000 sfollati, di cui 25.000 furono ospitati fuori dalle mura. Non bastava più andare di persona: le quattro funzioni furono distribuite in nove centri di coordinamento, gestiti tramite video-conferenza per il briefing giornaliero».
E com’è stata gestita poi l’emergenza sfollati nel passare del tempo?
«Dopo circa un anno e mezzo si è fatta un’analisi per vedere cosa fare con quanti erano ancora sfollati. La progettazione in fase di rientro comprendeva interventi come il coordinamento di assistente sociale, psicologo ed educatore di comunità».
Quali idee sono state sfatate e riviste nell’intervento post sisma?
«Un’idea sfatata è che si interviene sulla singola persona. Pensiamo al bambino che ha paura di tornare a casa perché c’è stato il terremoto. È sano e naturale che provi quest’emozione. Bisogna abbracciarlo e stargli vicino, ma soprattutto farlo confrontare con altri bambini che hanno la stessa paura. Di fronte a un evento come il sisma si sente che quello che era prima non sarà più. La catastrofe allora, proprio per questo, va rielaborata collettivamente. La risposta individuale e individualistica non funziona perché la persona che ha perso casa si sente immensamente sola. Se la si tratta individualisticamente, la si cronicizza. È importante allora lavorare col multifamiliare, con gruppi di bambini e genitori e, soprattutto, con gli insegnanti».
Dunque non c’è un vero e proprio metodo univoco?
«Va sempre ricalibrato. Con i kosovari ad esempio lavorammo con gli interpreti: i veri terapeuti erano loro. Noi li educavamo a capire le dinamiche psicologiche, ma loro ci aiutavano a cogliere le differenze culturali. Ci stupimmo nello scoprire che non conoscevano la tv satellitare. All’inizio temevano che qualcuno li spiasse… Questo ci illuminò su quanto sia importante capire le dinamiche sociali. L’efficacia interpretativa è una dote essenziale da mettere in campo per affrontare l’emergenza di volta in volta».
Quanto conta nell’emergenza la sinergia tra operatori, specialisti e volontari?
«È assolutamente fondamentale. Tra le associazioni di volontariato coinvolte nel nostro progetto ci sono Save the Children, Croce Rossa Italiana ed Emergency.
“Sinergia” però non significa che tutti obbediscono a qualcuno che dà ordini, ma che ognuno fa quello che sa fare. Anche il volontario è utile, perché spesso risponde a un bisogno concreto: se una persona cerca un letto, glielo procura. È anche un’azione che ha un’efficacia simbolica di vicinanza. Nei primi momenti della catastrofe infatti ciò che serve non è tanto la competenza psicologica, quanto il servizio alla persona, per orientarla nelle cose pratiche: costruire una tenda, capire l’organizzazione e le regole del campo. È molto importante avere qualcuno che sdrammatizzi la militarizzazione».
Ci sono catastrofi su cui non siete riusciti a lavorare?
«Il caso Traini. È una catastrofe soprattutto perché si tratta di un dramma a determinazione umana. Col Comune di Macerata stiamo cercando di lavorare sulla dimensione psicologica, attraverso il progetto di cittadinanza attiva “Macerata Partecipa”. Usiamo lo strumento del sondaggio statistico rivolgendoci alla popolazione. È un’operazione complessa, che vede resistenze. Ma il principio di base è sempre lo stesso: non si può trattare una catastrofe senza rivolgerci a tutta la collettività».