JESI – È tornato a casa Fabio Borgognoni. Il glaciologo e chimico dell’atmosfera è di nuovo a Jesi dopo 372 giorni di vita e lavoro sulla stazione Concordia in Antartide, a 3200 metri sul livello del mare e a oltre 1200 chilometri dalla costa. Una missione resa possibile grazie al PNRA, il Programma Nazionale di Ricerche in Antartide, finanziato dal MUR, e coordinato dal CNR per le attività scientifiche e dall’ENEA per l’attuazione logistica delle spedizioni. Temperature estreme: si va dai -25 gradi d’estate (da ottobre a gennaio) ai -90 dell’inverno, periodo quest’ultimo in cui è impossibile raggiungere la stazione non essendo ancora stati inventati mezzi in grado di muoversi a quelle temperature. Le persone più vicine alla Concordia? Gli astronauti della ISS (Stazione Spaziale Internazionale) quando orbitano al di sopra, a 400 km di altezza.
Ecco il suo reportage, in cui racconta come ha vissuto gli ultimi giorni in Antartide e quanto sia stato impegnativo il viaggio di ritorno.
«Dopo diversi mesi, da maggio a luglio, passati nella lunga notte polare, con 24 su 24 di buio e con temperature percepite di -90 gradi, finalmente anche a Concordia, la base di ricerca italo-francese gestita per l’Italia dal Programma Nazionale delle Ricerche in Antartide, nel mezzo del plateau Antartico, nella porzione chiamata Dome C, è arrivata la bella stagione. La prima alba è arrivata a metà agosto e da lì in poi ogni giorno che passava avevamo circa mezz’ora in più di luce, fino ai primi giorni di novembre, quando il sole non tramonta più: si abbassa un po’ sull’orizzonte ma poi risale e c’è quindi luce 24 ore al giorno. Anche le temperature si fanno più “miti”: d’estate avevamo “solo” ‑30, ‑25 gradi. Abbiamo cambiato tuta antartica altrimenti con quella invernale avremmo sudato! L’abbigliamento necessario per uscire all’esterno in quelle condizioni estreme non scherzava: vestiti a strati, sotto indossavamo una calzamaglia ed una maglia termica, dei calzettoni e tre paia di sotto-guanti. Sopra, poi, andava indossata la tuta polare vera e propria, un passamontagna, uno scaldacollo, un cappello termico, degli stivali ultra isolanti, delle muffole super-imbottite e la maschera per coprire gli occhi: il tutto pesava poco meno di 10 kg!
D’inverno, durante le attività che richiedevano tempi più lunghi all’esterno della base, nei guanti e negli stivali mettevamo anche degli scaldini chimici, per evitare di congelare mani e piedi. Ma nonostante tutto, con temperature così estreme e soprattutto se c’era vento, le dita si congelavano già dopo mezz’ora o anche meno e dovevamo rientrare spesso al caldo per evitare seri congelamenti. Così vestiti, anche se goffi ed ingombranti, si prendeva il materiale da lavoro e si usciva per le attività quotidiane. Tutta la strumentazione elettronica dotata di batterie, all’esterno non dura che pochissimi minuti. Banalmente, anche l’inchiostro delle penne si congela praticamente subito, rendendole inutili. Nel mio zaino avevo tutte cose molto semplici: bustine e contenitori sterili per i campionamenti di neve superficiale. Il “tablet” che utilizzavo era una tavoletta di legno su cui era fissato un foglio di carta per annotare tutti i parametri e le misurazioni ed una matita che non aveva problemi con quelle temperature! L’unica cosa tecnologica che portavo con me era una particolare macchina fotografica in grado di resistere per un po’ al freddo estremo e con la quale scattavo delle macro ai cristalli di neve per il successivo studio cristallografico. Arrivato poi nello shelter ATMOS a circa 700 metri dalla base avevo tutta una serie di campionatori di aerosol e particolato atmosferico da manutenere e a cui cambiare quotidianamente i filtri campionati. Tali filtri verranno poi inviati in Italia per lo studio degli inquinanti atmosferici. I dati ottenuti vengono utilizzati anche per lo studio dei modelli della circolazione dei venti: fin qui infatti possono arrivare le sabbie trasportate dal vento dall’Australia o dal Cile.
Oltre agli studi di glaciologia e di chimica atmosferica, nella base vengono condotti altri studi che riguardano la fisica dell’atmosfera, con antenne che studiano l’interazione delle particelle solari con la nostra atmosfera, lidar che misurano vari parametri fisico-chimici nelle nubi stratosferiche e palloni-sonda che acquisiscono informazioni su temperatura, pressione e velocità del vento fino a qualche decina di chilometri d’altezza che vengono inviate poi alla rete italiana ed internazionale per i servizi meteorologici globali. A Concordia si fanno poi studi di sismologia e di osservazione astronomica, visto che questo è un luogo privilegiato in quanto non ci sono attività umane che possano disturbare i sismografi. L’assenza di umidità nell’aria permette un’ottima visibilità ai telescopi che possono osservare ininterrottamente i corpi celesti per tutta la durata della notte polare. I ricercatori che decidono di passare un anno a Concordia per proseguire le ricerche in questo posto remoto sono un po’ come gli astronauti: sono esecutori di studi e ricerche progettati da enti di ricerca ed università e che spesso durano svariati anni.
A proposito di astronauti, durante i nostri mesi a Concordia, abbiamo avuto occasione di parlare tramite videoconferenza con due astronauti. Il primo è stato un astronauta tedesco appena andato in pensione ed orbitato sia sulla Soyuz russa che sulla Stazione Spaziale Internazionale. La videochiamata sarebbe dovuta durare solo mezz’ora, ma, sapute delle nostre condizioni estreme in cui ci trovavamo in mezzo all’Antartide, l’ex astronauta, dopo due ore non smetteva più di farci domande e di meravigliarsi! Il secondo astronauta, francese, era a bordo della ISS e quindi mentre ci rispondeva, lo vedevamo fluttuare in assenza di gravità nella stazione orbitante. Ci ha fatto fare una visita virtuale di tutta la ISS e poi è andato a posizionarsi nell’”osservatorio”, una cupola con delle finestre dalla quale vedevamo la Terra dallo spazio! Chissà, magari la ISS stava orbitando a poca distanza da noi!
L’ultimo periodo nella base Concordia, è stato per noi più impegnativo del solito. Sia ricercatori che tecnici, oltre alle nostre consuete attività lavorative, avevamo anche delle attività extra da portare a termine, ad esempio le pulizie straordinarie della base, degli shelter e dei laboratori, in previsione dell’arrivo del personale estivo, i primi di novembre. Ogni locale della base è stato pulito accuratamente, persino le pareti, le porte ed i soffitti!
Prima del nostro rientro in Italia abbiamo piantato i cartelli stradali delle nostre città realizzati da noi stessi durante l’inverno: ora a Concordia c’è il cartello che indica Jesi, che dista “solo” 15216 Km. Una passeggiata!
Il 2 novembre è arrivato il primo aereo con i primi passeggeri e nei giorni successivi sono arrivati anche tutti gli altri: il personale “estivo” che rimarrà fino a metà gennaio ed i nuovi “invernanti”, tredici persone quest’anno, che rimarranno a Concordia fino a novembre 2022. Da una parte, dopo nove mesi in cui eravamo rimasti solamente in dodici, ovviamente non vedevamo l’ora di incontrare i nuovi arrivati, dall’altra avevamo un po’ di timore per questa “invasione” da parte di oltre cinquanta persone in quella che oramai consideravamo un po’ la nostra casa. Invece, devo dire che a parte che non si riesce più a trovare uno spazio o un momento in cui rimanere da soli, è andato tutto per il meglio. La stazione è in grado di ospitare una trentina o poco più di persone: quelle in più andavano a dormire nei moduli abitativi e nelle speciali tende a poca distanza dalla base. Quest’anno era poi anche arrivato il personale per il progetto Beyond-Epica, coordinato da Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari, che studierà il paleoclima fino a 1,5 milioni di anni fa tramite le carote di ghiaccio che verranno estratte a Little Dome C, a circa 30 km da Concordia.
Nelle ultime due settimane di permanenza nella base antartica abbiamo dovuto insegnare tutte le nostre rispettive attività lavorative alla persona che ci avrebbe succeduto: non è semplice, le cose da insegnare sono tante e i nuovi invernanti ci hanno seguito anche durante le esercitazioni antincendio o di rescue. Saranno loro infatti che dovranno formare le nuove squadre dei “vigili del fuoco” per l’intervento in caso di incendio, quelle per il soccorso ed il recupero di un eventuale infortunato all’esterno della base e la squadra medica che dovrà affiancare il dottore della base nelle necessità mediche: in caso di emergenza dovranno cavarsela solo con le loro forze visto che la base rimarrà completamente isolata per diversi mesi.
L’ultimo giorno a Concordia per noi della 17° spedizione invernale è stato il 20 novembre. In mattinata è arrivato l’aereo, un Basler BT-67 appositamente modificato per volare a quelle temperature, con altri ricercatori e tecnici che dovevano venire a Concordia e poco dopo, terminati i saluti e gli abbracci, siamo saliti noi sull’aereo. Prima destinazione: la base francese costiera di Dumont D’Urville, a circa 1100 km di distanza. Dopo tre ore e mezza di volo nell’aereo – non pressurizzato e decisamente rumoroso – siamo atterrati a circa 5 km dalla base francese: visto che quest’ultima è situata su un’isola, l’ultimo tratto l’abbiamo coperto in elicottero. Giunti nella base francese, ci siamo stupiti per l’incredibile numero di pinguini di Adelia, una delle specie più diffuse sulle coste dell’Antartide, alti fino a 70 cm e con peso sui 4-6 kg, che c’erano tutto attorno e tra i vari edifici. Ovviamente ci siamo tenuti a distanza per non infastidirli, ma percorrendo alcune passerelle sopraelevate si poteva veramente arrivare a poche decine di centimetri di distanza dai siti che i pinguini avevano scelto per stabilirsi. Mentre le femmine erano intente a riposare o covare le due uova nel nido, un avvallamento contornato di ciottoli rocciosi, i maschi si prodigavano a cercare i piccoli ciottoli che poi portavano col becco e posizionavano delicatamente alla base del nido. Questi piccoli sassi erano merce rara in quell’ambiente ostile, per cui alcuni pinguini invece di fare lunghe ricerche preferivano prelevarli dai nidi dei vicini cercando di passare inosservati. Ma dovevano fare i conti con la coppia di pinguini proprietaria del nido, che spesso scacciavano il ladro prima che riuscisse ad ottenere il suo bottino. Le coppie di pinguini a volte rinsaldavano il loro legame con richiami simultanei: vicini tra loro, alzavano i becchi verso il cielo ed emettevano il loro verso caratteristico dondolando la testa di qua e di là in maniera sincronizzata.
In lontananza abbiamo visto anche qualche pinguino imperatore, la specie più grande e pesante tra i pinguini, che possono arrivare fino a 120 cm di altezza ed un peso compreso tra i 20 e 40 kg, con la loro caratteristica andatura e le macchia gialle brillante a livello delle orecchie.
È stato un peccato trascorrere solamente tre ore nella base francese: già poco dopo il nostro arrivo ci hanno accompagnati nella nave rompighiaccio L’Astrolabe dalla quale non saremmo più scesi se non otto giorni dopo, cioè una volta giunti nella nostra seconda destinazione: Hobart, la capitale della Tasmania.
I primi due giorni, in realtà, la rompighiaccio non si è allontanata troppo dal sito di Dumont D’Urville: non potendo rimanere ancorata alla banchina nei pressi della base francese per evitare danni allo scafo in caso di forti venti che l’avrebbero fatta urtare con il ghiaccio, è andata alla ricerca di imponenti iceberg per ripararsi dal vento e dalle avverse condizioni meteo.
Dopo essere ritornata nei pressi della base francese e aver ricevuto tramite elicottero gli ultimi passeggeri a bordo, la rompighiaccio è finalmente partita alla volta dell’Australia, a oltre 2500 km di distanza. Sono stati 6 giorni di navigazione in uno dei mari più agitati al mondo, con la nave che oscillava fino a 40 gradi a destra e a altrettanti a sinistra. Più di una volta è capitato di sentire, magari in cucina o nella cambusa, il rovesciarsi ed il cadere con gran fracasso di materiale vario sul pavimento. Di notte, oltre al rumore dei motori della nave, spesso non si riusciva a dormire in quanto l’oscillazione della nave ci faceva rotolare continuamente nel letto di qua e di là.
Dopo l’enorme distesa di ghiaccio della banchisa, siamo passati per zone con il ghiaccio a frittelle (placche di 1,5-2 metri di spessore) e quindi zone con iceberg enormi e via via sempre più piccoli e radi, fino a raggiungere il mare aperto. Durante il giorno, isolati anche dal punto di vista delle telecomunicazioni, nella nave non c’era molto da fare se non guardare qualche film o serie televisiva, oppure ammirare il panorama. Se passavamo vicino qualche iceberg e non c’era tempo per recuperare la tuta antartica, qualche volta andavamo fuori a fare foto sul ponte della nave in maniche corte: in fondo erano solo pochi gradi sotto lo zero!
Il 28 novembre la nave è giunta in Tasmania: una volta attraccata siamo dovuti rimanere a bordo fino al risultato del tampone, ma almeno abbiamo ricominciato a vedere un po’ di verde! Gli alberi li avevamo visti l’ultima volta ad ottobre 2020! Il giorno successivo siamo finalmente sbarcati e siamo riusciti a visitare un po’ la città prima del nostro volo di rientro in Italia. In fondo ad Hobart c’eravamo passati anche durante il nostro viaggio d’andata, quasi quattordici mesi prima, ma avevamo passato 28 giorni isolati nel nostro hotel per la quarantena prima di partire per l’Antartide e non avevamo potuto vedere nulla.
È stata una esperienza incredibile, in un posto quasi surreale, ma decisamente faticosa: per me e per altri ricercatori che portano avanti i progetti e gli studi nella base italo-francese sono stati 372 giorni di lavoro senza nessun giorno di riposo.
Pochi giorni fa c’è stata la notizia del primo volo turistico in Antartide e questo mi preoccupa molto: questo continente è l’ultimo rimasto pressoché intatto e preservato dall’azione dell’uomo perché estremo ed inospitale. Nonostante ciò, anche qui nelle zone costiere iniziano a vedersi i primi segni dei cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento del pianeta, con temperature più alte rispetto al passato, scioglimenti sempre più veloci ed imponenti dei ghiacciai e distacchi di iceberg sempre più frequenti. Se dovessero prendere piede anche i voli commerciali e turistici, si amplificherebbero inevitabilmente gli effetti negativi dell’inquinamento e dell’impatto umano su questo fragile ecosistema che invece va preservato a tutti i costi».