JESI – Sono quattro i finalisti marchigiani della prima edizione di Reporter Day, il concorso giornalistico nazionale promosso da Gli occhi della guerra e basato sul crowfunding. Fra di loro anche lo jesino Alessandro Tesei. Diplomato in arti visive e multimediali all’Accademia di Belle Arti di Macerata, nei suoi documentari sociali e di denuncia trae ispirazione da maestri quali Herzog, Pasolini, Ciprì e Maresco. Fra i suoi lavori più apprezzati e premiati, “Fukushame – Il Giappone perduto” sulla catastrofe nucleare di Fukushima, con annesso cortometraggio “Fukushima no Daimyo”, il documentario “Behind the Urals – The Nightmare before Chernobyl”, il documentario “Burning Bikinis”, sulla storia dei movimenti femministi a Malta.
«Per questo concorso “Gli Occhi della Guerra” – racconta Tesei – ho presentato un servizio sul delta del fiume Niger, in Nigeria, dove l’Eni ha da anni interessi petroliferi. Sono aree devastate dall’inquinamento causato dalle perdite degli oleodotti, e dove la popolazione locale ha difficoltà ad avere acqua potabile. Mi interessa molto anche il punto di vista dell’Eni, essendo una realtà italiana. Incrocio le dita, visto che i progetti che verranno approvati sono solo 2 su 160 circa. Non sarà affatto facile».
Cosa significa essere un reporter specializzato in foto e video?
«Ci sono molti modi per essere fotoreporter o videoreporter. Non c’è una definizione che possa calzare bene ed essere adatta a tutti. Il mio modo di esserlo prevede innanzitutto una grande curiosità, per il mondo che ci circonda e soprattutto per quelle che considero ingiustizie. Allo stesso tempo ci vuole spregiudicatezza, perché spesso si corrono rischi di natura fisica e legale. Per raccontare alcune particolari storie, non dovresti avere rispetto della legge e delle autorità, perché altrimenti non potresti nemmeno avvicinarti a certi temi. Poi ci sono varianti e variabili di ogni tipo. Ci sono reporter che si muovono solo con permessi e con viaggi organizzati nei minimi dettagli, ma a mio avviso non arriveranno mai a vedere completamente ciò che li circonda, si fermeranno prima, dove chi li guida deciderà di farlo. Io invece sacrifico tutto per la storia, e sono sempre stato disposto a correre ogni tipo di rischio per raccontarla fino in fondo».
Quali sono le maggiori difficoltà da fronteggiare?
«A questa domanda spesso ci si attendono risposte del tipo: la polizia, le radiazioni, i servizi segreti. Ma in realtà le difficoltà più grandi sono sempre legate alla ricerca di fondi per partire, all’essere pagati (quando capita) e poi alle modalità di distribuzione e promozione del lavoro. Il reporter è un ibrido tra videomaker e giornalista, e purtroppo in Italia è una figura poco considerata. Ovviamente sul campo ci sono parecchie difficoltà, tutte quelle che si trovano generalmente in ambienti ostili. A partire dalle autorità locali, solitamente poco innamorate di chi va a mettere il naso nei loro contesti di riferimento. Poi ci sono le problematiche socio-culturali, ovvero gli ostacoli della comunicazione con gli autoctoni, che parlano altre lingue o che non vogliono essere intervistati per evitare rappresaglie. Infine, l’aspetto sanitario, visto che molte volte mi trovo ad operare in zone di disastri ambientali, dove sono costretto a scegliere se rischiare o meno».
C’è un legame stretto fra la tua professione e quella del giornalista tradizionale?
«Il reporter è, di fatto, un giornalista. Racconta storie. Forse, rispetto al giornalista, è più libero».
Cosa consiglieresti a chi vuole investire su questa professione?
«A chi vuole intraprendere questa strada dico innanzitutto che è rischiosa sotto molti punti di vista, già ampiamente elencati sopra, e assai poco remunerativa, quindi ci vuole davvero una grande passione e una grande voglia di conoscere. Per quanto riguarda la fattibilità di ogni progetto, basta volerlo, visto che la tecnologia attuale ci permette di essere liberi di raccontare qualunque storia con una spesa in materiale tecnico abbastanza bassa».