«In realtà non sono così bravo come credono», «Ho vinto il concorso solo perché non c’erano altri più preparati», «Ho avuto un buon risultato solo per un colpo di fortuna», «Altri lo meriterebbero più di me», «Io in realtà non sono così capace/intelligente/competente, ecc», «Ce l’ho fatta solo perché era facile»: sono espressioni tipiche di chi è afflitto dalla “sindrome dell’impostore”, un atteggiamento mentale persistente che porta a sentirsi in colpa per la percezione di non aver meritato i successi ottenuti e di aver in qualche modo ingannato gli altri, le cui capacità vengono invece sempre sovrastimate. Viene definito come “un’esperienza interna di frode intellettuale”, la convinzione di godere di stima e apprezzamento immotivati, accompagnata dalla paura che prima o poi questa inadeguatezza venga scoperta; in altri termini, si tratta della difficoltà a internalizzare i propri successi e della tendenza a sottostimare le proprie abilità, malgrado tutte le prove contrarie costituite da tutti i risultati raggiunti.
Non si tratta di un disturbo, di una psicopatologia, ma di un fenomeno molto comune che può comunque creare difficoltà e compromettere il funzionamento della persona, limitandola nel raggiungere traguardi che sarebbero alla sua portata ma per cui si percepisce inadeguata, non permettendole di godere della gratificazione derivante dai risultati ottenuti, inducendola a svalutarsi quando si approccia ad esempio a colleghi e superiori (come difesa dalla paura del giudizio negativo, “mette le mani avanti” screditandosi da sé), comportando difficoltà a bilanciare lavoro e vita privata con rischio di burnout, influenzando negativamente le relazioni, comportando ansia costante per la propria immagine sociale.
Come avevamo visto in un articolo precedente, si tratta dell’altra faccia dell’effetto Dunning-Kruger per cui le persone più ignoranti sovrastimano la propria competenza e sono eccessivamente sicure di sè, mentre quelle più preparate sottostimano la propria competenza ed esagerano quella altrui, finendo per essere dubbiose e insicure e lasciare invece campo libero a concorrenti molto meno preparati. Chi è molto preparato tende a credere che anche gli altri lo siano e mette perciò più facilmente in dubbio sé stesso.
Questo tipo di atteggiamento può comportare numerose conseguenze pratiche: evitare occasioni in cui occorre esporsi, non fare domande per non sembrare sciocchi o impreparati, non proporsi per collaborazioni, lavorare e prepararsi troppo sprecando molte energie per paura di apparire impreparati, evitare cambiamenti per paura di non sapersi adattare.
Ciclicamente, chi ha la tendenza alla sindrome dell’impostore sperimenta una condizione di preoccupazione e di dubbio su di sé, a cui reagisce o con una eccessiva preoccupazione o con la procrastinazione, fino al conseguimento del risultato positivo, a cui però segue un altro ciclo di preoccupazione e dubbio e così via, con un’amplificazione della percezione di sé come impostori, al crescere del risultato raggiunto. Accumulare successi non placa l’ansia e non aumenta l’autostima, anzi, produce l’effetto contrario perché nessun successo raggiunto è abbastanza per i propri standard di perfezione.
Quali sono le cause di questo atteggiamento? Concorrono diversi fattori:
-Fattori socio-culturali: il fenomeno inizialmente sembrava riguardare maggiormente le donne, in particolare quelle occupate in ambito scientifico e tecnologico e le donne che svolgono lavori tradizionalmente maschili, ma si è poi osservato che si riscontra in pari grado tra uomini e donne e soprattutto in tutti coloro che occupano una posizione anomala per gli standard sociali. Un altro fattore favorente è l’eccessiva importanza data dalla società attuale a competizione, risultato, successo, che amplifica la difficoltà ad accettare sé stessi quando la propria prestazione non è ottimale;
-Errori cognitivi: noi esseri umani conosciamo bene i nostri dubbi e punti deboli che solitamente cerchiamo di nascondere, mentre degli altri vediamo come appaiono dall’esterno (o ciò che vogliono mostrare), vediamo più i punti di forza che essi vogliono far apparire e rischiamo quindi di sovrastimare le loro risorse e competenze e sottostimare le loro imperfezioni ed esitazioni;
-Le caratteristiche personali più associate al fenomeno sono il perfezionismo, l’ambizione ad essere i migliori, la paura di sbagliare, la paura di deludere le aspettative, l’attribuzione a cause esterne dei successi e la paura che gli altri se ne accorgano, una scarsa autostima, intransigenza verso sé stessi, tendenza a rimuginare sugli errori e a confrontarsi continuamente con gli altri, ricerca di conferme dall’esterno, standard molto elevati, depressione;
– Dinamiche relazionali: se le persone che circondano il soggetto non lo ritengono capace di un successo, anche il soggetto stesso forma questa opinione di sé e nel caso raggiunga un risultato, lo attribuisce a un errore o a un caso. Genitori molto critici e controllanti, famiglia con basso supporto reciproco, con scarsa possibilità di esprimere le emozioni, ambiente in cui per avere affetto occorre mostrare il proprio valore, sono condizioni che favoriscono questa tendenza psicologica.
Cosa si può fare per modificare questo atteggiamento mentale?
-Imparare a essere meno severi con sé stessi;
-Imparare ad accontentarsi e non puntare sempre al massimo, rendendo meno rigidi i propri standard di prestazione;
-Imparare a dare di sé una valutazione oggettiva senza oscillare tra gli estremi dell’essere i migliori o i peggiori, posizioni che esprimono entrambe onnipotenza, perché pensare di essere i peggiori è comunque un modo per caratterizzarsi e distinguersi piuttosto che stare nella massa e nell’area intermedia;
–Diventare consapevoli delle proprie credenze distorte, delle convinzioni limitanti, della propria voce interiore svalutante e non darle credito, perché non descrive la realtà;
–Osservare le insicurezze degli altri per ridimensionare le proprie;
-Mettere nero su bianco le tappe e i risultati raggiunti per evitare di negarli e di focalizzarsi solo su ciò in cui si è stati manchevoli;
-Forzarsi ad agire e non procrastinare attendendo il momento migliore, ma attivarsi anche se non in condizioni perfette;
-Esercitare l’autocompassione piuttosto che cercare in conferme esterne un appiglio per la propria autostima.
-Dott.ssa Lucia Montesi Psicologa Psicoterapeuta
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