La vicenda delle sanzioni comminate a colossi quali Apple e Samsung ha fatto parlare tutti di “obsolescenza programmata“. Ma cosa è realmente? È davvero la prima volta che accade un episodio simile? Quali dispositivi possono essere affetti da questa “malattia artificiale”?
L’obsolescenza programmata è una sorta di invecchiamento a cui vengono spinti volutamente i dispositivi ipertecnologici che utilizziamo quotidianamente perché vengano sostituiti con modelli di ultima generazione. È una pratica commerciale scorretta che viola il codice del consumo e che ha portato il Garante italiano dei consumatori (l’Antitrust) a sanzionare per dieci milioni l’azienda di Cupertino e per cinque la rivale sudcoreana.
Alla base delle sanzioni vi è l’atteggiamento delle grandi case costruttrici di telefonini nei confronti degli utenti, per spingerli a scaricare e installare degli aggiornamenti su particolari modelli, quali l’iPhone 6 (e le varianti “Plus”, “S”, …) e il Note 4. Aggiornamenti del software che hanno reso meno efficienti le prestazioni dei dispositivi, non in grado di reggerli.
Non solo. Non c’era la possibilità di tornare indietro e re-installare solo il software con cui era uscito di fabbrica. Tra le sanzioni, infine, c’è anche la questione della mancata o non adeguata informativa agli utenti circa la maggior richiesta di energia, la minor durata delle batterie, gli spegnimenti improvvisi e altre conseguenze di questo genere.
Molti consumatori si sono recati nei centri di assistenza per sistemare la situazione con tempi e costi impegnativi, senza però la possibilità di cambiare il destino del proprio smartphone, diventato obsoleto in poco tempo, quindi “da cambiare”.
Ma è davvero il primo caso di obsolescenza programmata nella storia? No di certo. Se ne parla già dagli anni ‘30 del secolo scorso. Alcuni tra i più grandi costruttori di lampadine a incandescenza avevano trovato un tacito accordo per ridurre la durata in termini di ore, quasi dimezzandola, perché gli utenti le cambiassero più spesso. Un modo per rilanciare un mercato che subiva gli effetti della crisi (erano gli anni della grande depressione).
Capiamo così che la questione dell’obsolescenza programmata tocca davvero tutti gli oggetti, tecnologici o meno, che abbiamo: dai telefonini alle lampadine, dalle lavatrici alle automobili. Anche se sappiamo che un bene non può durare per sempre, certo non immaginiamo che dopo appena due anni sia da buttare. E infatti non lo buttiamo: lo teniamo in qualche cassetto perché potrebbe tornare utile. In realtà non potrà esserlo più perché la velocità con cui progrediscono alcuni settori tecnologici e le nuove e sempre più performanti caratteristiche che siamo spinti a desiderare fanno sì che i vecchi cellulari rimpiazzati rimangano poi nel limbo per anni. Fino a che non li buttiamo davvero.
A fianco a questo processo, in cui noi consumatori siamo in qualche modo più o meno lecito spinti a cambiare il nostro device, ce n’è un altro, in cui siamo meno spettatori: è l’obsolescenza percepita, quel fenomeno tutto psicologico che ci fa convincere che sia ora di cambiare dispositivo, auto, modello di telefonino. Una tendenza che colpisce più o meno tutti, in base anche all’esposizione alla pubblicità dai ritmi e contenuti sempre più consumistici: è l’effetto di quello sguardo che gettiamo sempre più spesso all’oggetto fashion, a quello di tendenza o all’ultima moda, a quel qualcosa di nuovo che “voglio a tutti i costi”. In questi casi siamo noi che pensiamo e agiamo più o meno consapevolmente, a cui un freno arriva solo dalla piena presa di coscienza che si tratta di un modello di vita insostenibile. Ma, nel frattempo, ci costringe a far la fila davanti ai negozi per l’ultimo modello di smartphone o ad assaltare letteralmente i negozi quando ci sono gli sconti.