ANCONA – Precariato, lavoratori occasionali, assistenzialismo, stipendi pagati in nero, rider poco retribuiti e gente che fa i salti mortali per arrivare alla fine del mese: ha ancora senso la Festa dei Lavoratori del 1° maggio? Lo abbiamo chiesto al professor Guido Luigi Canavesi, ordinario di Diritto del lavoro al dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Macerata.
Professor Canavesi, l’art. 1 della Costituzione sancisce che «l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», ma non tutti hanno il privilegio di lavorare. E quindi chiedo: il 1° maggio ha ancora senso?
«Sì, soprattutto per ricordare il grande valore del lavoro, che resta un fattore identitario della persona. Quando non sappiamo cosa fare non ci sentiamo realizzati. Ecco, il lavoro va inteso sia come lavoro avverso la controprestazione economica sia come partecipazione all’utilità sociale e apporto delle proprie capacità alla collettività».
Però, c’è chi fatica ad arrivare a fine mese…
«Ci sono lavoratori poveri, a cui non viene garantita una retribuzione adeguata alle esigenze minimali di vita. Si registra una crescita della povertà non necessariamente dovuta a mancanza di lavoro».
Come il settore dei rider…
«Più che di settore, parlerei di un fenomeno variegato. C’è chi fa il rider per arrotondare e chi lo fa per mestiere. Ciò che emerge è che, dagli anni ’80 ad oggi, abbiamo avuto grandi trasformazioni dovute a due cose: da un lato la globalizzazione, che allarga il mercato, ampliando la concorrenza. E dall’altro la rivoluzione tecnologica, che costringe al rapidissimo aggiornamento delle nostre conoscenze».
In questo quadro, c’è il Diritto del lavoro…
«Che ha ancora senso, anche se bisogna capire quali direzioni deve imboccare e cosa vuol dire tutelare il lavoro».
Se dico Covid?
«La pandemia ha aperto scenari diversi, che prima comunque esistevano già. Il fatto è che ci siamo ritrovati dall’oggi al domani a dover garantire l’adempimento di obblighi lavorativi in modo diverso. Strade nuove che hanno vantaggi e rischi».
Spieghi…
«Sarà difficile tornare alla concezione di lavoro come inteso nel pre-covid. Ci sarà invece una maggiore possibilità di strumenti informatici. Non solo telelavoro, ma anche lavoro agile. E ciò porta a ripensare le modalità organizzative della produzione e degli ambienti di lavoro».
Quali i rischi?
«La dimensione sociale del lavoro: la creazione di comunità e di legami tra persone. E soprattutto la capacità di sopportare un lavoro così isolato. Si parla già di effetti sul piano psicologico, di logoramento psicologico, non solo fisico, delle persone».
Parliamo di infortuni sul lavoro nelle Marche…
«Sono diminuiti rispetto agli ultimi due anni, ma c’è stato un trend ascendente rispetto a un decennio fa. La stampa puntava il dito contro la carenza di organico degli Ispettorati del lavoro, ma ancora prima c’è un problema di cultura».
Cioè?
«Tendenzialmente, nelle piccole aziende c’è spesso una cultura del fai da te ed è più difficile recepire le complesse normative di tutela dei lavoratori. E poi, beh, potrebbero tacciarmi di essere politicamente scorretto, ma non credo che si possa pensare al rischio zero. Il rischio zero è un’utopia».
Prosegua…
«Insomma, noi stessi, anche se non lavoriamo, quando siamo in casa, non abbiamo un rischio zero. L’imprevisto c’è sempre e la pandemia lo ha dimostrato. Ecco, non servono altre leggi, ma lo sviluppo di una cultura della sicurezza. L’impresa non deve pensarla come un costo e il lavoratore deve percepire un miglioramento della propria condizione».
Come stanno le Marche dal punto di vista lavorativo?
«Interessante è un fenomeno che il Covid ha accentuato. E cioè: gran parte della perdita di occupazione, nella nostra regione, è legata al venire meno di attività imprenditoriali, o di liberi professionisti che si cancellano dagli albi o, ancora, di autonomi che chiudono la partita Iva. È quanto risulta dall’ultimo rapporto dell’Osservatorio del mercato del lavoro. Ciò, a livello nazionale, pone un problema di confronto con la normativa di tutela dei lavoratori che ha tendenzialmente sempre dimenticato i lavoratori autonomi».
Oggi, tra l’altro, c’è molta incertezza, anche per via della guerra russo-ucraina…
«Sì, e la possibilità di crescita dei contratti a tempo indeterminato è messa a rischio, non in termini assoluti, ma relativi, perché le imprese, prima di assumere in modo stabile, devono essere ragionevolmente certe dei loro andamenti. Ciò non toglie che i dati rilevino come il numero dei contratti a tempo indeterminato sia complessivamente alto, e non semplicemente come nuove assunzioni».
Senta, c’è chi dice che i sindacati non servano più a nulla e che non abbiano più potere. Lei cosa pensa?
«Che i sindacati hanno avuto (e continuano ad avere) un ruolo fondamentale circa la tutela delle condizioni dei lavoratori. A fronte di cambiamenti, come quelli di cui parlavamo, anche loro hanno l’esigenza di ripensarsi, di riconsiderare le proprie linee politiche. Le grandi organizzazioni tendono a sclerotizzarsi, a burocratizzarsi e ciò rende più difficile adeguarsi ai tempi. Ciononostante, rimangono un elemento essenziale. Anche qui, c’è un problema di educazione delle nuove leve sindacali e di cultura sindacale. Una cultura che sappia cogliere le trasformazioni».