ANCONA – «Quelle lanciate dal regime iraniano contro la 29enne giornalista Cecilia Sala, arrestata il 19 dicembre scorso, appaiono accuse vaghe e generiche». Lo spiega il professor Marco Severini, docente di Storia dell’Italia contemporanea presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università di Macerata, intervenendo sulla vicenda della giornalista italiana reclusa nel carcere iraniano.
«Espressioni come la violazione della “legge della Repubblica islamica dell’Iran” o quella secondo cui il caso di Sala, rea di presunti “comportamenti illegali”, “è sotto inchiesta” fanno pensare ad un’accusa aperta alle più disparate eventualità – spiega lo storico – sembrerebbero confermare l’intenzione del regime di Teheran di usare la giornalista italiana come pedina di scambio con Mohammad Abedini Najafabadi, il 38enne ingegnere iraniano esperto di droni, detenuto nel carcere di Opera, la cui estradizione è stata richiesta dal governo statunitense. Ci troviamo di fronte a un intricato caso di diplomazia internazionale che si gioca lungo il triangolo tra Italia, Iran e Stati Uniti».
Cosa rischia Cecilia Sala? «Difficile dirlo. Potrebbe rischiare due mesi di carcere o venire espulsa per evitare un processo lungo, l’opzione preferita dalla nostra diplomazia. Ma il destino della Sala è sempre più intrecciato a quello di Abedini, benché i due usufruiscano di un trattamento detentivo decisamente differente: la situazione della giornalista italiana è “complicata e molto preoccupante”, come hanno riferito i genitori della Sala, in quanto la loro figlia è detenuta in pessime condizioni, visto che dorme per terra, usa due coperte come giaciglio e non dispone né di materasso né di maschera per gli occhi (che forse potrebbe ricevere) nella cella illuminata 24 ore; le hanno tolto gli occhiali e non ha ricevuto alcun pacco; ha detto di poter resistere ma ha contestualmente chiesto aiuto. Dal canto suo Abedini, accusato dagli Stati Uniti di complicità con i terroristi che un anno fa hanno ucciso tre soldati americani in Giordania, e detenuto provvisoriamente in Italia dove ha già cambiato tre prigioni, venendo riportato, dopo quello di Rossano Calabro (che solitamente accoglie i cittadini islamici accusati di reati simili), nel carcere lombardo, come richiesto del consolato iraniano; soprattutto l’ingegnere ha incontrato più volte il suo avvocato che ha presentato istanza per gli arresti domiciliari, è stato in grado di parlare con i familiari in Iran, possiede un Ipad (non connesso a Internet) e ha accesso ai notiziari televisivi».
Che significa essere detenuti nel carcere di Evin? «Significa essere rinchiusi nella prigione che prende il nome dall’omonimo quartiere di Teheran, una prigione per lo più utilizzata per la detenzione di oppositori politici, nota a livello internazionale per le frequenti denunce di violazione dei diritti umani. Si tratta di una partita delicata perché in essa giocano una parte la decisione dei giudici italiani sul caso Abedini, la possibilità del nostro guardasigilli di revocare l’arresto e la differenza per caratteristiche e presupposti dei reati contestati all’ingegnere iraniano tra Stati Uniti e Italia; secondo Washington, infatti, Abedini avrebbe fornito sistemi di navigazione usati dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, considerato un’organizzazione terroristica negli Usa, in Canada e in Svezia, ma assente dalla lista nera dell’Onu e dell’Unione europea».
È cambiata la condizione delle donne con il nuovo presidente Mahmud Ahmadinejad? «Dal 1979 le iraniane hanno dovuto sottostare a una lunga serie di restrizioni di diritti e libertà. Sotto la presidenza di Aḥmadinežād (2005-13) è stata incoraggiata la partecipazione delle donne nella politica iraniana e alcune di loro sono state designate alle più alte cariche politiche. Dopo la morte di Mahsa Amini – brutalmente assassinata, il 16 settembre 2022, dalla Polizia Morale iraniana per non aver indossato correttamente l’hijab – l’Iran ha visto aumentare il numero degli scontri in cui le donne si sono trovate in prima linea».