APPIGNANO – Quando sono entrate a Birkenau avevano appena 6 e 4 anni e, con la fantasia tipica dei bambini, Tatiana e Andra Bucci hanno cercato di esorcizzare la paura e la morte che si vivevano nel campo di concentramento. Oggi, a 84 e 82 anni, le due sorelle originarie di Fiume, sono testimoni attive della Shoah italiana e voce che tramanda a centinaia di studenti cosa è davvero successo durante le deportazioni. Il loro racconto potrà essere ascoltato sabato (29 gennaio), alle 16.30, al teatro “Gasparrini” di Appignano, dove le due sorelle interverranno in occasione delle celebrazioni per la “Giornata della Memoria” (27 gennaio) e riceveranno la cittadinanza onoraria fortemente voluta dall’amministrazione, insieme a Edith Bruck, altra sopravvissuta dell’Olocausto che, invece, interverrà on line.
Voi siete nate in una famiglia “mista”, perché vostro padre Giovanni era italiano e cattolico, mentre vostra madre Mira era ebrea. Cosa ricordate della sera in cui arrivarono i tedeschi nella vostra casa?
«Era sera e a casa nostra, oltre alla mamma e alla nonna (nostro padre non c’era perché era stato fatto prigioniero in Sudafrica dove lavorava come marittimo) – raccontano le sorelle Bucci –, c’erano anche nostro cugino Sergio e gli zii. Eravamo in otto e quando arrivarono i tedeschi c’era una gran confusione in casa. La mamma ci vestì di fretta, senza spiegarci nulla, ma quello che ci colpì molto fu l’atteggiamento della nonna che, inginocchiata, chiedeva a un soldato in piedi davanti a lei di portarla via, ma di lasciare a casa i bambini. Ovviamente non fu così, tutto fummo portati via e caricati su un’auto fino alla periferia di Fiume, a Susack dove passammo la notte in un magazzino. La mattina dopo siamo stati trasferiti alla Risiera di San Sabba dove dovremmo aver passato un paio di giorni e solo dopo siamo stati portati alla stazione di Trieste per prendere il treno che non sapevamo dove sarebbe andato. Solo dopo abbiamo capito che saremmo arrivate in Polonia. Durante il viaggio, la mamma riuscì a far cadere un bigliettino fuori dal vagone in cui scriveva alla famiglia di papà che eravamo stati portati via».
La notte del 4 aprile 1944 siete arrivati a Birkenau, dove siete rimaste per dieci mesi, cosa ricordate di quel periodo? «La prima cosa fu la divisione tra uomini e donne e lì la nostra famiglia si è separata. In realtà noi eravamo talmente piccole che non ci siamo rese subito conto di quello che veramente stava succedendo e, probabilmente, quella è stata la nostra salvezza per tornare a vivere una volta finita la guerra. Perché gli scheletri ammassati li vedevamo giornalmente, sapevamo che lì si moriva, che era una non vita. Eppure i bambini riuscivano a giocare ugualmente, quel cumulo di morti che si vede anche nel film di Roberto Benigni La vita è bella, noi lo vedevamo giornalmente, ma non ci spaventava. E sono sensazioni che adesso fanno male, perché solo negli anni, crescendo, abbiamo elaborato e capito cosa fosse successo, ma in quei momenti essere dei bambini ci ha portato a non capire. Anche perché per un bambino, cos’è la morte? Nessuno di noi piccoli ha mai pensato di poter morire lì dentro, anche se poi in realtà succedeva, ed è per questo che i morti non ci impressionavano».
Voi siete scampate alla prima selezione, perché ritenute gemelle?
«Sì, ci scambiarono per gemelle e pensarono che potevamo essere utili per gli esperimenti di Mengele. Per cui siamo rimaste sempre insieme e in vita, poi, in realtà ci fecero solo un prelievo di sangue, ma non iniziarono mai gli esperimenti su noi, altrimenti non saremmo qui oggi».
C’è un ricordo che vi è rimasto più di altri di quei mesi terribili?
«C’era nostra madre che la sera, quando finiva di lavorare, veniva da noi e ci ricordava i nostri nomi, il nostro cognome e il fatto che fossimo italiane perché, ma anche questo lo abbiamo capito dopo, far perdere l’identità alle persone deportate era quello che i tedeschi volevano. Per loro dovevamo essere solo un numero».
Dal 2004 fate viaggi con gli studenti per raccontare cosa è successo ad Auschwitz-Birkenau, com’è stato tornare in quei luoghi?
«Non è stato facile, ma dovevamo farlo perché dare una testimonianza ai ragazzi in quei luoghi è una cosa che non potranno mai dimenticare e potranno anche raccontarla ai loro figli. Noi non siamo eterne, per cui tramandare la memoria è un nostro dovere. E i migliaia di studenti che abbiamo incontrato in questi anni non ci hanno mai deluso, li abbiamo sempre trovati attenti e curiosi di sentire le nostre storie e questo non può che farci piacere».
Qual è il valore più grande cercate di trasmettere agli studenti?
«Di studiare, conoscere la storia e ragionare con la propria testa, accettando gli altri perché siamo tutti uguali. Ci possono essere altre lingue, altre religioni, altri colori della pelle, ma dentro siamo tutti uguali».
Tante anche le onorificenze e le cittadinanze onorarie che avete ricevuto.
«Sì ed ogni volta è una grande emozione, per questo ringraziamo anche il Comune di Appignano. Il 2 febbraio, inoltre, riceveremo il cavalierato dalla Repubblica federale di Germania che, per noi, ha un valore molto importante, è come se la Germania abbia riconosciuto i suoi errori».