Macerata

Il campo di concentramento di Servigliano racconta le tragedie del ‘900. «Qui prigionia e sofferenze per alleati ed ebrei»

Dalla Prima guerra mondiale alla Guerra fredda, il campo del Fermano è testimone del Novecento. Dopo il Secondo conflitto mondiale, è stato persino centro di raccolta dei profughi istriani e giuliano dalmati

Il campo di prigionia e di concentramento di Servigliano, in provincia di Fermo (Foto: Associazione Casa della Memoria)

SERVIGLIANO – Siamo a Servigliano, in provincia di Fermo, nelle Marche. Qui c’è uno dei più importanti campi della memoria per la storia italiana (e non solo). Il campo di concentramento di Servigliano trasuda di vita, anche se lì, prima i soldati e poi gli ebrei, aspettavano solo la morte.

Una morte che – per molti di loro – sarebbe arrivata nei campi di concentramento e di sterminio, dopo atroci sofferenze e inutili speranze.

«Si tratta dell’unico campo in Italia che può raccontare tutte le tragedie del Novecento, dalla Prima guerra mondiale alla Guerra fredda, visto che dopo il Secondo conflitto mondiale il campo è stato persino un centro di raccolta profughi istriani e giuliano dalmati».

Il senatore Francesco Verducci, di Servigliano

Fu il senatore Francesco Verducci (originario di Servigliano) a depositare un disegno di legge per fare di quel campo di prigionia un Monumento nazionale. Una proposta, la sua, che incontrò il favore trasversale di tutti i capigruppo dei vari partiti (e tanto più della senatrice a vita Liliana Segre, superstite dell’Olocausto e testimone diretta della Shoah).

Insieme visitarono il campo nel 2019: «Nel parco antistante, giocavo da bambino – ricorda Verducci – e adesso ci giocano i miei figli, insieme ai loro amichetti e a generazioni di fermani. Penso tuttavia che sia doveroso ricordare come in quel Parco della pace dall’atmosfera (oggi) ricreativa, fosse stato un luogo in cui ieri si consumarono vicende terrificanti. Il muro e le baracche ancora in piedi sono una ferita ancora aperta, la cui entità non dobbiamo mai smarrire. Quella ferita non si rimarginerà mai e tenerla aperta significa avere consapevolezza che ciò che è accaduto può tornare, significa presidiare la democrazia».

Tra l’altro, il 18 gennaio Verducci ha depositato in Senato un disegno di legge «per favorire la conoscenza e lo studio dei campi di prigionia, di internamento e di concentramento in tutta Italia, al fine di promuovere nelle scuole viaggi nella storia e nella memoria nei campi italiani».

Giordano Viozzi, presidente dell’associazione Casa della Memoria

Ma torniamo a Servigliano: qui l’associazione Casa della Memoria nasce formalmente nel 2001. Fino agli anni ’90 nessuno si occupò di questo fazzoletto di terra nelle campagne marchigiane. Fu un insegnante, il professore Filippo Ieranò, ad occuparsene, dopo il suo trasferimento a Servigliano.
«Ieranò è il fondatore che inizia una fitta ricerca su questo campo – spiega il presidente dell’associazione, Giordano Viozzi –. Dal 2 marzo dello scorso anno, il campo è Monumento nazionale per la sua importanza nel raccontare i passaggi più tragici del Novecento».

Una storia che inizia «nel 1915, come campo di prigionia per soldati austroungarici. E durante la Seconda guerra mondiale diventa luogo di prigionia prima per greci e slavi e poi per i  soldati alleati». Una storia che non si interrompe neppure l’8 settembre 1943, giorno dell’armistizio, «in cui il campo viene lasciato a sé stesso». Poi, verrà preso dai nazisti.

«La sera del 14 settembre ’43 – racconta Viozzi – i 2mila prigionieri presenti nel campo riescono a fuggire e gli spazi vengono svuotati». Ecco, gli spazi: «Durante la Prima guerra mondiale, poteva ospitare 4mila prigionieri suddivisi in 32 baracche di 300 metri quadrati ognuna, quindi baracche molto grandi. Nella Seconda guerra mondiale, invece, il campo viene dimezzato per una questione di gestione: la capienza era di 2mila prigionieri in 16 baracche».

«Dopo la fuga dei prigionieri, il campo – continua il presidente – viene riaperto ad ottobre ’43. I nazisti lo trasformano in un campo di concentramento per ebrei. Nei mesi, vengono organizzate azioni di disturbo e di guerriglia intorno al campo. Azioni portate avanti sia da bande partigiane sia da soldati precedentemente fuggiti, il cui unico obiettivo era quello di liberare il numero maggiore di ebrei».

Seconda guerra mondiale, Servigliano, campo dei prigionieri di guerra (Foto: Associazione Casa della Memoria)

Fu l’aviazione britannica a riuscirci: «L’azione più importante – riprende Viozzi – ha avuto luogo nella notte del 4 maggio, quando il campo viene mitragliato dagli aerei dell’aviazione britannica e, aprendo delle brecce nelle mura di cinta, si permette la fuga di diversi ebrei. Purtroppo, 31 di loro restano nel campo e il giorno dopo vengono portati dai tedeschi a Fossoli, un campo in provincia di Modena, quello di smistamento principale». Da lì, i vagoni dei treni verso i campi di sterminio

A Servigliano «non c’erano camere a gas e gli ebrei – a dire il vero – non erano costretti ai lavori forzati. Era un campo di concentramento e di transito. Venivano raccolti per essere in seguito portati altrove. Non facevano nulla, erano rinchiusi nelle baracche, lasciati al loro destino. Non a caso – fa Viozzi – abbiamo raccolto testimonianze sulla difficoltà di reperire cibo. Spesso, gli ebrei venivano costretti a raccogliere le erbe e a cibarsene».

«Dei 31 ebrei che partiranno da Servigliano, solo 3 sopravvivono ad Auschwitz, ma sul numero si dibatte ancora: perché secondo il Centro di documentazione ebraica contemporanea, i sopravvissuti sarebbero 5 (3 da Auschwitz e 2 dal campo di Bergen-Belsen)».

Una vista dall’alto del campo di Sevigliano (Foto: Associazione Casa della Memoria)

Le ricerche sono ancora in corso e dalla Casa della Memoria ci si augura di arrivare presto alla verità. Intanto, però, ci si prepara al Giorno della Memoria, con un calendario fitto di eventi durante la settimana del 27 gennaio: «Abbiamo l’ambizioso progetto di aprire in modo permanente tutti i weekend. Chissà se riusciremo a realizzarlo».

Se questi fatti rischino di cadere nell’oblio a causa della morte dei testimoni diretti? «Mi auguro di no. Tutto dipende da noi e dalle generazioni successive. Noi lavoriamo molto con le scuole – riflette Viozzi – e dalle scuole deve partire la capacità di tramandare una memoria non fine a sé stessa, non una vuota celebrazione, ma una memoria funzionale a tramandare ideali e valori fondativi del nostro vivere civile, basato sul rispetto reciproco della diversità. Valori che rinveniamo nella nostra Costituzione e che ci ricordano come quanto successo non debba più ripetersi».