Paola Giosuè, osteopata e fisioterapista, da molti anni si occupa di età evolutiva, ha approfondito la sua conoscenza mediante corsi di aggiornamento specifico, e ha avuto e ha tuttora l’opportunità di trattare soprattutto bambini. Durante questo processo evolutivo professionale si è avvicinata moltissimo anche ai disturbi dell’età evolutiva e soprattutto ai disturbi del neurosviluppo. Da diverso tempo si occupa di formazione presso l’AIOT (Accademia Italiana di Osteopatia Tradizionale), dove insegna anatomia del sistema nervoso centrale e periferico e la fisiologia del sistema nervoso. In più fa da tutor a questi studenti. Il suo percorso pertanto l’ha condotta a scrivere due libri, il primo dal titolo “Autistico a chi?” ed il secondo “Autismo è… questione di neurodivergenza”, pubblicato da Pathos Edizioni. Oggi l’abbiamo intervistata in occasione della Giornata Mondiale dell’Autismo.

«La relazione con pazienti, famiglie, studenti e professionisti, con i quali si intesse una rete di collaborazione e di condivisione di esperienze, ha fatto nascere in me pian piano – ha detto Paola Giosuè – il desiderio sempre più di condividere. La pulsione più forte di scrivere è emersa durante il Covid, come a tante persone, perché in quella fase di eccezionalità di isolamento le famiglie con una condizione già emergenziale, come quella di avere un figlio neurodivergente, nel caso specifico autistico, si sono trovate ad affrontare criticità enormi. Quindi molto spesso – ha aggiunto – mi è capitato di sentire telefonicamente queste famiglie per provare a sostenerle. Poi, quando si è ripreso a lavorare, da parte nostra come professionisti non c’erano molte opportunità di confronto, abbiamo avuto rapporti con i colleghi a distanza. Questo ha fatto esplodere in me quel desiderio di scrivere, perché ho pensato che se io avessi potuto trasmettere attraverso una narrazione quello che stavo facendo, in un rapporto uno a tanti, si sarebbe moltiplicata la possibilità di crescere e di attuare un rinascimento culturale, per le persone che non conoscono la condizione autistica, di sostenere le famiglie, migliorando la conoscenza da un punto di vista anatomico, fisiologico e biologico di quello che accade nei corpi dei loro figli, di aumentare la possibilità di confronto con i tecnici, in questo caso con gli osteopati. Ma in realtà per avere un’efficacia nel processo evolutivo della condizione autistica è necessario un approccio il più possibile interdisciplinare».
Paola Giosuè ha scritto il suo primo libro “Autistico a chi?” nel 2021: «Volevo fosse proprio una domanda essenziale perché in realtà si abusa molto di questo termine, anche in maniera piuttosto riduttiva e anche offensiva, pensando che essere autistico abbia connotazioni quali essere schivo, rigido, stereotipato. In questo primo testo mi sono molto interrogata sui concetti di normalità, sul fatto di non avere una semeiotica all’interno della quale far rientrare una persona nello spettro autistico, sul fatto che l’autismo non si limiti a quegli elementi nucleari che lo classificano: la mancanza di linguaggio, di relazioni, il non agganciare lo sguardo, l’essere rigido nei comportamenti e averne alcuni motori ritmati e stereotipati. La condizione autistica è spettrale – ha proseguito -, nel senso positivo del termine, perché è così variopinta come lo sono le sfumature nello spettro dei colori. Questo è un processo che si è maturato pian piano, che poi si è tradotto in un’operazione piuttosto ingenua. Però l’ho fatto con tantissima partecipazione di impegno, nel produrre un materiale che fosse da un lato narrativo e di esperienze, con esempi. Il tutto sempre supportato dall’aspetto anatomico, fisiologico e dalla letteratura scientifica, che potesse giustificare quello che io ho trascritto. Questo è stato molto apprezzato, il libro ha avuto una risonanza importante. Mi ha portato piano piano a prendere consapevolezza di dover sostenere questo primo atto».


A quattro anni di distanza, Paola Giosuè, ha pubblicato il suo secondo libro “Autismo è… questione di neurodivergenza”.
«Mi sono sentita – spiega l’autrice – come se avessi seminato e incominciato a dar forma ad un giardino. Se lo avessi lasciato senza rinforzo, avrebbe perso la sua produttività e la bellezza sarebbe andata pian piano a svanire. Quindi l’idea è stata quella di produrre una nuova narrazione. Mi sono interrogata su che cos’è questo autismo, sicuramente non sono io a poterlo definire perché è una situazione estremamente complicata e dibattuta. Il lessico ormai accettato, dalla comunità sia scientifica sia autistica, è essere una persona neurodivergente. La neurodivergenza è diverso dalla neurodiversità, perché neurodiversi lo siamo tutti. Ma tra la stragrande maggioranza di persone neurodiverse c’è una categoria minore che diverge, e quindi da lì neuroatipica/divergente. Le forme di manifestazione sono molte, oltre alla condizione autistica: i disturbi di DHD, DSA e altro. Nello specifico, le persone nello spettro dell’autismo attualmente non sono più divise tra asperger o autistici ma in realtà sono tutte persone che hanno una condizione neurodivergente. Quindi questa seconda narrazione si incentra sul fatto che la neurodivergenza si esprime da sempre, non ci si diventa quando si notano i primi comportamenti allarmanti».
Prosegue Giosuè: «La condizione autistica è il frutto di un’organizzazione del sistema nervoso, che si esprime in maniera atipica, siccome il neurosviluppo avviene durante la gestazione, già alla terza settimana di vita intrauterina. Non dimenticando che sono un osteopata, la mia è una narrazione divulgativa, perché nelle 380 pagine del secondo testo utilizzo lo stesso stile del primo. Uno stile molto basato sul racconto, ogni capitolo inizia con un’esperienza, dalla quale poter prendere spunto per cercare di spiegare attraverso la fisiologia, l’anatomia, la biologia e la letteratura scientifica moderna perché un certo comportamento si esprima in quel modo oppure non si riesca ad accedere ad una funzione di evoluzione del neurosviluppo. Questo secondo testo si incentra molto sul fatto dell’avere coraggio di affrontare, di trasformare e di permettere alla persona di poter non sopravvivere in un ambiente fatto per neurotipici ma di vivere, di risplendere continuamente. L’obiettivo del mio libro è quello di continuare ad apportare quel rinascimento culturale verso la società che deve conoscere chi è nella neurodivergenza per poter poi applicare la vera inclusione. Di dare l’opportunità alle famiglie di riuscire a gestire le grandissime criticità sperando di essere compresi, e insieme a chi è intorno a loro, per poter permettere a queste meravigliose creature che io così chiamo, che sono nello spettro, di poter fare emergere le proprie peculiarità che molto spesso sono talenti. Io, da tecnica in questo caso, mi sento obbligata a non agire in maniera solo imitativa e esperenziale ma ad avere la formazione sempre più accreditata e soprattutto a utilizzare quell’esperienza pratica che mi aiuti ad approcciare, ad attuare quella relazione cucita su misura come un abito sartoriale, con la persona che ho davvero tra le mani, per il trattamento osteopatico. L’autistico ha un corpo che può essere testato, trattato, come quello di ogni altro individuo, la differenza la fa la difficoltà di gestire i tempi, i modi, le sensoriali, perché questa è l’essenza della condizione autistica. Le dispercezioni sensoriali danno frutto alle difficoltà motorie e alle relazioni. Quindi fondamentali sono il tempo, lo spazio, la giusta distanza e il metodo, da dover utilizzare in maniera oggettiva per poter avere un’adeguata opportunità di valutazione e poi permettere un processo migliorativo».
Paola Giosuè ci tiene a sottolineare di essere un’osteopata e di non avere la lungimiranza di potere, attraverso la sua scrittura, impegnarsi in altro se non nell’aspetto terapeutico e clinico, che riguarda la sua opportunità di intervenire per far sì che questi suoi pazienti, bambini, ragazzi ed adulti, che sperimentano la fatica fisica di vivere in un contesto non cablato per loro, e che hanno una condizione di alert costante che il loro corpo vive come un disordine, possano riposare, avere un tono muscolare più regolato, riuscire ad avere un miglior respiro, una migliore espressività somatica con prosodia nella produzione dei loro suoni o della loro comunicazione più armoniosa. Questi il suo obiettivo in termini terapeutici e il suo desiderio in termini umani, che i “suoi ragazzi” possano stare bene. «Secondo me sono delle creature che non hanno nulla di diverso rispetto alle loro peculiarità, sono eccezionali, nel senso che hanno una neurodivergenza, in realtà non desiderano null’altro che stare bene e essere messi nella condizione di potersi esprimere. I racconti di casi che mi sono nel cuore e che poi rimangono nella mia testa sono tantissimi».

«Durante la narrazione – aggiunge Paola Giosuè – racconto di bambini o ragazzi chiamandoli con i nomi veri, perché sono persone che gestisco e conosco. Tra questi c’è Michele, un ragazzo che ormai ha 19 anni, ed è nello spettro dell’autismo a basso funzionamento, quindi significa che ha delle caratteristiche che necessitano un grado di assistenza elevato e costante. Ma noi abbiamo una relazione che ormai è molto stabile, io conosco benissimo il suo corpo ed attraverso delle tecniche precise e mirate conosco tutto quello che il suo corpo esprime in termini di salute o di perdita della stessa. Michele desidera, ogni volta che ne ha bisogno, che la mamma mi contatti. Perché sa che posso tradurre verbalmente quello che nel suo corpo sta capitando e che neanche lui riesce a raccontare. Lo stesso mi dice Rosella, la mamma di Marco.
Quindi questi aspetti per me hanno un valore che va oltre la professione, sono delle opportunità sicuramente che io ho, di altissimo valore umano, ma sono anche delle responsabilità fortissime per la persona della quale mi prendo carico e per le loro famiglie, che vivono davvero un impegno e delle emozioni sempre molto forti. Però c’è anche il rovescio della medaglia, questo significa anche mettersi vicino a loro nel gestire la paura e le criticità. Tutti i miei ragazzi sono nel mio cuore e nella mia testa, da loro prendo degli esempi che mi suscitano quel bisogno di approfondimento che mi porta a studiare, a documentarmi, e che mi spingono a tante riflessioni e non smettono mai di incuriosirmi. Dunque ringrazio Michele, Marco, Emanuele, Sofia, e tantissimi altri. E soprattutto ringrazio le loro famiglie e pretendo che non ci sia nei loro confronti un comportamento di pietismo ma ci sia un apprezzamento per quello che fanno perché agiscono davvero con coraggio. Coraggio è un termine formato da due parole, “agire con il cuore”, agiscono continuamente così, davvero fisicamente e dunque passano notti insonni, lavorano per poter sbarcare il lunario ma non smettono mai di pensare ai loro figli, il loro coinvolgimento non finisce mai. Sono sempre costantemente lì con i loro figli, vale per i nonni, per i fratelli, per gli insegnanti di sostegno, persone che sono coinvolte in termini di complessità altissima. Mi sento di dire grazie ai miei ragazzi ed alle loro famiglie».
Paola Giosuè ha intitolato un capitolo del libro “Abitare le domande”.
Con questo termine, che ha ripreso dal suo assistente spirituale don Luigi Verdi, l’autrice intende dire che piuttosto che dare delle risposte bisognerebbe proprio vivere insieme a queste famiglie e capire che non possono essere lasciate sole. E che è difficile per i neurotipici entrare nella loro logica, poter comprendere e entrare in empatia in maniera semplice.
«C’è il racconto di due genitori di un ragazzo ormai adolescente, che è stato sottoposto ad un test con delle formine in cui gli venivano proposti tre animali e gli veniva chiesto di indicare quale fosse il gatto. Quel ragazzo è andato con tutte e due le mani a coprire le tesserine degli altri due animali. E quindi è stato considerato non capace di riconoscere neppure quell’animale domestico che sarebbe stato logico avesse invece riconosciuto. In realtà la logica della neurodivergenza è diversa da quella del neurotipico. Quindi, entrando un po’ nella loro, dico che in realtà è stato molto intelligenze questo ragazzo, perché ha coperto le due figure che non rappresentavano il gatto, lasciando in evidenza la risposta giusta. Per lui era chiaro che il gatto fosse quello libero, per noi non è semplice da comprendere. Ci sarebbe dunque bisogno di maggiore conoscenza, di calma, di collaborazione e di condivisione, ma in senso pratico di più assistenza tecnica domiciliare, scolastica, di più centri di aggregazione che non siano solamente dei parcheggi o dei centri di socio assistenza, ma che permettano ad ogni ragazzo di poter esprimere i propri talenti. Di questo le istituzioni devono prendere contezza. Se il Ministero della Salute ad oggi conta che 1 persona su 77 è nello spettro, è molto numerosa l’incidenza della popolazione. Non è più una fetta di minoranza, quindi da parte di tutti deve essere alto il senso di responsabilità».
L’aspetto per il quale Paola Giosuè si sta prodigando personalmente e che sta cercando di condividere con tutti i suoi colleghi, è far sì che ogni piccolo dubbio che, durante il neurosviluppo, possa far sospettare che in un bambino ci sia qualcosa che non sta andando nei termini e nelle modalità adeguate al processo, debba essere attenzionato: «Non si può aspettare che passi troppo tempo perché la plasticità neurale è altissima nelle prime fasi del neurosviluppo. I primi due anni sono fondamentali ma anche fino a 6, piuttosto che ad 8. Per cui, ognuno per il suo ruolo deve essere capace di prendere in considerazione i sospetti senza andare a medicalizzare subito il tutto ma senza neanche banalizzare.
Il più velocemente si procede e più alta può essere l’opportunità di far sì che quel sistema nervoso, comunque neurodivergente, possa raggiungere il massimo delle sue opportunità, la sua evoluzione possa essere il più alta possibile. E far sì che quella persona su 77 possa entrare sì nello spettro ma ad un buon livello di funzionamento, piuttosto che avere un futuro di soggetto con un alto grado assistenziale. Io mi permetto di dire che c’è bisogno ed è questo che le famiglie mi raccontano per il ruolo che rivesto, e voglio essere una voce, di tanti che gridano nel deserto. Non voglio più essere omertosa di fronte a questa richiesta di aiuto e a questo bisogno di presa in carico».