MACERATA – Incendio colposo (due contestazioni), inquinamento ambientale, falsità ideologica commessa dal privato, omissione dell’adozione di misure di prevenzione incendi, mancato aggiornamento del rapporto di sicurezza, omissione della redazione del documento di politica di prevenzione degli incendi rilevanti, mancata adozione di un modello di gestione funzionale all’organizzazione dell’impresa. In totale sono otto i capi d’imputazione che la procura addebita a vario titolo all’amministratore unico, a un dipendente e alla ditta Orim spa per il devastante incendio scoppiato all’interno dell’impianto in cui vengono gestiti rifiuti pericolosi e non a Piediripa di Macerata.
Era il 6 luglio del 2018 quando nella zona industriale della frazione del capoluogo intervennero 55 vigili del fuoco (provenienti anche da altre province) a bordo di 20 automezzi. All’interno della Orim due capannoni andarono a fuoco con fiamme che inizialmente arrivarono a non meno di 50 metri e un’estensione di fumo per 300 metri.
Per quel rogo sono imputati davanti al giudice dell’udienza preliminare Claudio Bonifazi, l’amministratore unico di 75 anni e un dipendente di 32 anni di Potenza Picena (oltre alla ditta legalmente rappresentata dal suo amministratore) e ieri nel procedimento il Comune di Macerata si è costituito parte civile con l’avvocato Nicola Piccinini. In otto pagine di contestazioni la procura (il fascicolo è del procuratore capo Giovanni Giorgio e del sostituto Rosanna Buccini) ricostruisce i fatti e cristallizza i singoli addebiti. Secondo l’accusa nei capannoni c1 e c2 dello stabilimento (dove è scoppiato l’incendio) erano presenti sostanze pericolose e infiammabili in quantità di molto superiori a quelle dichiarate e approvate dal comando dei vigili del fuoco di Macerata.
Ad aggravare l’estensione e la potenza del rogo sarebbero state, per gli inquirenti, anche alcune difformità trovate nell’impianto, ad esempio una tettoia fissata in corrispondenza del locale adibito a centraline di controllo dell’impianto di rilevazione automatica dell’incendio difformemente a quanto previsto nel progetto approvato, e risultava non protetto da una porta resistente al fuoco tanto da essere stata danneggiata dall’incendio e «tale da non opporsi alla propagazione dell’incendio», si legge nel capo d’imputazione. Un’altra tettoia era stata spostata e al suo posto erano stati posizionati fusti da 200 litri poi coinvolti nell’incendio del cui contenuto non si sarebbe riusciti a conoscere le caratteristiche di pericolo perché non erano state registrate e poi materiali in deposito in corrispondenza delle zone c1 e c2 erano in quantitativo ben superiore alle 20 tonnellate autorizzate dai vigili del fuoco. A queste circostanze ne vanno aggiunte altre due, ovvero, il fatto che l’impianto idrico-anticendio al momento dell’apertura era risultato non utilizzabile per la caduta di pressione dell’acqua (cosa che per la procura non sarebbe successa se fosse stato sottoposto a manutenzione) e che la squadra antincendio aziendale aveva cercato di spegnere l’incendio di liquidi infiammabili con l’acqua degli idranti e non con gli estintori a polvere agevolando così la propagazione del rogo.
Per i magistrati inquirenti queste gravi carenze gestionali vanno imputate all’amministratore unico che, oltre a ciò, non avrebbe aggiornato il rapporto di sicurezza (che avrebbe comportato una procedura di riesame della Valutazione di impatto ambientale), non avrebbe redatto il documento di politica di prevenzione degli incendi rilevanti e non avrebbe adottato idonee misure di prevenzione incendi e per la tutela dell’incolumità dei lavoratori. All’imprenditore 75enne viene contestato anche il reato di falsità ideologica commessa dal privato perché nell’attestazione di rinnovo periodico di conformità antincendio inviata ai vigili del fuoco ad agosto del 2017 avrebbe attestato falsamente l’assenza di variazioni rispetto al certificato di prevenzione incendi del 2012.
Poi c’è la posizione del dipendente, anche lui accusato di incendio colposo, per aver materialmente provocato il rogo. Il pomeriggio del 6 luglio del 2018 (erano le 16.35), dovendo sistemare un paio di fusti contenenti rifiuti da circa 200 litri che erano stati posizionati in modo sporgente su un bancale posto a circa 4 metri di altezza, da solo in retromarcia si era messo a manovrare un muletto in una zona dove c’erano cisterne con cospicui rifiuti infiammabili e per errore era andato a sbattere contro il bancale facendo cadere i fusti a terra con il conseguente immediato innesco del violento incendio. Sia il dipendente sia l’amministratore sono accusati anche di inquinamento ambientale, ovvero di aver contaminato sia le acque sotterranee sia quelle superficiali. Per quanto riguarda le prime, già prima dell’incendio, ci sarebbe stata una immissione continuativa nel sottosuolo di composti alogenati che sarebbero filtrati a causa di un’inadeguata pavimentazione degli ambienti produttivi aziendali finendo nella falda sottostante, con un notevole aggravamento del fenomeno inquinante a seguito dell’incendio. Invece per quanto riguarda le acque superficiali, l’incendio avrebbe messo fuori uso il sistema antinquinante del depuratore comunale che avrebbe subito un peggioramento della capacità di trattamento delle acque reflue con il conseguente scarico di rifiuti liquidi non a norma nel fiume Chienti per un tratto di 600 metri.
Ieri l’avvocato Paolo Giustozzi che difende l’amministratore unico ha sollevato delle eccezioni sull’inutilizzabilità di alcuni atti di indagine relativi ai campionamenti effettuati, mentre il collega Donatello Prete ha chiesto un patteggiamento parziale per il dipendente, relativo al solo capo d’imputazione di incendio colposo (l’avvocato della ditta Orim è invece Nicola Perfetti). Ieri il gup ha ammesso a costituzione di parte civile il comune di Macerata e rinviato il processo al prossimo 10 febbraio.