Macerata

Omicidio Mastropietro, l’avvocato Verni: «Continuiamo la battaglia contro la mafia nigeriana»

L'intervista al legale della famiglia, e zio della giovane, a due anni dalla morte della 18enne romana e in attesa del processo in appello per Innocent Oseghale. Ecco cosa dice anche sul tema delle mafie etniche

Da sinistra (in senso orario) l'avvocato Marco Valerio Verni, Pamela Mastropietro, la casa in via Spalato in cui fu uccisa e l'installazione fatta dal comune di Macerata a due anni dalla morte della 18enne romana

MACERATA – Era la mattina del 31 gennaio del 2018 quando il corpo di Pamela Mastropietro viene rinvenuto fatto a pezzi in due trolley a Casette Verdini a Pollenza. La 18enne romana si era allontanata dalla comunità Pars di Corridonia, dove era ospite, due giorni prima. Per il suo omicidio (e per la tentata violenza sessuale) è stato condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’assise di Macerata, lo scorso 29 maggio, il 30enne nigeriano Innocent Oseghale. Per la famiglia Mastropietro sono ancora tanti i lati oscuri da chiarire su quanto avvenuto due anni fa.

Avvocato poco più di due anni da quei tragici fatti e la condanna all’ergastolo per Innocent Oseghale la vicenda è conclusa?
«La Corte d’Assise, in un passaggio della sentenza, lascia aperta la possibilità che Innocent Oseghale non fosse solo. E, secondo noi, ci sono plurimi indizi chiari, precisi e concordanti che ci portano a pensare che Oseghale ed altri possano far parte della mafia nigeriana. Che quest’ultima esista anche nelle Marche e nella provincia di Macerata, ormai, è un dato acclarato. D’altronde, anche a livello nazionale, credo che, per diverso tempo, da parte di qualcuno, sia forse mancata una visione di insieme sui tantissimi reati, moltissimi dei quali legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, che sono stati considerati come a se stanti e non come collegati tra loro e commessi da persone che, in realtà, potevano far parte di un qualcosa di più grande.

Lo stesso errore di metodo, in sostanza, che, per anni, fu compiuto con le nostre (mafie) e che, mutatis mutandis, fu rimproverato dagli stessi Falcone, Borsellino, Chinnici, Caponnetto e da tutti gli altri magistrati del pool antimafia che portarono al primo grande maxi-processo della storia contro Cosa Nostra, ai colleghi che li ebbero a precedere. Ma noi non smettiamo di credere nelle Istituzioni, con le quali siamo sempre disponibili, lo ripeto, ad un proficuo confronto e ad una serena collaborazione, nel comune interesse della Giustizia. Per quanto ci riguarda, continueremo la nostra battaglia che è diventata quella di tanti».

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Pamela Mastropietro

Quali sono gli elementi che avallano le vostre convinzioni, sulla mafia nigeriana a Macerata e nelle Marche? Anche grazie alle vostre insistenze qualcosa, finalmente, sembra smuoversi...

«Potremmo parlarne per ore. Vi sono elementi processuali e investigativi, emersi indirettamente sin dalle indagini compiute nel procedimento svoltosi a seguito dei tragici e demoniaci fatti che hanno riguardato Pamela, ed altri, che abbiamo via via appreso da evidenze extra-processuali, che basterebbe metter insieme, come in un puzzle, per rendersi conto che forse, quello che andiamo sostenendo, non sia poi tanto peregrino.

Tra i primi, intanto, il modo in cui sia stata ridotta la stessa Pamela. Ma ci rendiamo conto? Un caso che è stato definito unico nella storia della criminologia mondiale degli ultimi cinquanta anni, sebbene in Nigeria siano ricorrenti i depezzamenti di corpi, pure di donne e bambini, lasciati poi per strada, a mo’ di messaggio.

Potremmo poi andare dalle macabre intercettazioni captate in cella tra Lucky Desmond e Lucky Awelima, in cui il primo dice di essere stato un “rogged” (basta fare una ricerca su internet, per scoprire che tale termine viene pure utilizzato nei rituali di affiliazione alle confraternite criminali nigeriane) alle frasi in cui i due dicono che Oseghale, appunto, sia stato uno dei capi e che lo aveva già fatto altre volte (riferito all’uccidere, evidentemente, e all’aver tagliato il corpo di una donna) quando era in Nigeria.  

Ed altro ancora. Tutto rigorosamente smentito dai suddetti in udienza, con un atteggiamento tipico di chi, generalmente parlando, e al di là, per carità, di legittime scelte difensive, possa far parte di certe organizzazioni.

Le fotografie rinvenute sul cellulare di uno dei due Lucky, ancora, che rappresentano persone evidentemente torturate, alcune delle quali, con molta probabilità, scattate direttamente dal telefono in questione. Il che vuol dire che il legittimo proprietario fosse lì presente.

L’abitazione in via Spalato dove Pamela venne violentata, uccisa e fatta a pezzi da Innocent Oseghale

Tra i secondi, i numerosi arresti compiuti a danno di altri nigeriani; i chili e chili di sostanze stupefacenti a essi sequestrati, le strutture e i metodi con cui il tutto avveniva: ma davvero si vuol pensare che questi fossero, o siano, dei criminali occasionali e non, invece, strutturati in vere e proprie organizzazioni, anche di tipo mafioso?

O, ancora, le clamorose operazioni compiute da due distinte Direzioni distrettuali antimafia (L’Aquila e Bari) a inizio del dicembre dello scorso anno, che hanno coinvolto anche le Marche e la stessa provincia di Macerata.

Senza contare, tra l’altro, la forte paura, indizio evidente di intimidazione, che gli interpreti nigeriani sembrano aver avuto, tanto nel processo contro Oseghale, quanto in altri a quest’ultimo collegati, al punto da rifiutare o rinunciare all’incarico, rendendosi addirittura irreperibili, o pretendendo le giuste “protezioni” quando si sono trovati a svolgere il proprio lavoro in udienza, davanti all’imputato di turno.

Cos’altro si aspetta per ammettere la possibile evidenza? Certo, qualcuno lo ha iniziato a fare, ma speriamo che ora seguano i fatti concreti.

In questo, servirebbe l’aiuto anche del mondo dell’informazione: con mio stupore, ho notato un po’ di timidezza, da parte di qualcuno, nel mettere in evidenza quel che noi abbiamo sostenuto per mesi (subendo anche critiche e offese) e che è ora riportato in maniera chiara e senza alcuna interpretazione possibile in senso contrario sul rapporto della Direzione Investigativa Antimafia riguardante l’attività da essa svolta nel primo semestre 2019: ossia l’esistenza delle mafie etniche, e in particolare di quella nigeriana, anche in provincia di Macerata, oltre che nelle Marche tutte.

Mafie, non generiche organizzazioni criminali, dunque. Una realtà che già era stata evidenziata nel rapporto ancora precedente, in cui si parlava di un controllo, sulla suddetta regione, da parte dei Maphite. Ma c’è chi ha negato».

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Perché, secondo voi, non si approfondiscono quindi questi aspetti?

«Di Macerata non so. A livello generale posso dire che la timidezza o la reticenza nel parlare di mafia nigeriana possa essere dettata principalmente da evidenti motivi politici, perché riconoscerne l’esistenza e il radicamento anche in Italia significherebbe ammettere il fallimento del sistema di accoglienza (che comunque è evidente) e quindi il fallimento di una certa classe politica e partitica.

Inoltre si teme di essere tacciati di razzismo anche se si ignora un dato clamoroso e cioè che le prime vittime di questa maledetta criminalità, che è tra le più pericolose al mondo, sono le stesse nigeriane. Così come, delle estorsioni, sono i gestori di African shop. Allora dov’è il razzismo? Anzi, se venisse affrontata la questione come si deve e se si prendessero i dovuti provvedimenti si darebbe solo una mano alle suddette ragazze, evitando che vengano prese dai loro paesi di origine e trasportate con violenza o con l’inganno in Italia. E si contrasterebbero le organizzazioni che lucrano sia sul traffico che sulla tratta di esseri umani e che sono sia straniere (nigeriane, in primis) sia italiane e di altre nazionalità.

A livello giudiziario, poi, un conto è lasciare aperta la porta a una possibilità, circa l’esistenza di un fenomeno, anche avuto riguardo al dato nazionale (che oggi, davvero, non può certo portare a pensare all’esistenza di “isole felici”), salvo poi riflettere sulla difficoltà, che ci può stare, nel portare il tutto in un’aula di tribunale; altro conto è escluderla (quella possibilità) con assolutezza e senza ombra di dubbio».

L’avvocato della famiglia Mastropietro-Verni e zio di Pamela, Marco Valerio Verni

Parliamo di Oseghale: è vero che non doveva stare più in Italia?
Questo è un altro aspetto della vicenda: Oseghale era un richiedente protezione internazionale ma la sua domanda era stata rigettata in tutti i gradi. Nonostante ciò, stava ancora in Italia. Così come altri.

State portando avanti, possiamo dire, una vostra “battaglia personale”?
«È una battaglia, ma soprattutto, ormai, una missione. Stiamo girando l’Italia per sensibilizzare le persone sulla mafia nigeriana e la gente si sta piano piano rendendo conto di questo bruttissimo cancro che ha il paese. Un cancro tenuto nascosto e non curato per tantissimi anni e che, per questo, ha fatto le metastasi. La cosa assurda è che, agli occhi di qualcuno, quasi siamo noi i cattivi: c’è chi ci accusa di voler infangare una comunità (quella maceratese e marchigiana), o di cercare visibilità. Mi domando cosa farebbe questa gente, fortunatamente la minoranza, se fosse al posto nostro. Se non si prodigasse in ogni modo per cercare la verità anche oltre il singolo processo. Perché vede, la dicotomia verità storica-verità processuale, che si studia durante i primi giorni di Università, per chi si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza, insegna proprio questo: che in un processo, magari non si riesce a dimostrare un fatto per come esso effettivamente si sia svolto. Ma, andando oltre, non vuol dire che non si debba continuare a parlare e a riflettere su un qualcosa, soprattutto quando esso abbia riguardato un fatto così atroce e che ha scosso il mondo, solo perché in un’aula di giustizia si sia discusso solo di una parte di esso. Saremmo dei folli e degli egoisti se non continuassimo a porre l’attenzione, carte alla mano, si intende, su determinate situazioni che potrebbero davvero riguardare tutti. Chiaramente, noi possiamo arrivare fino ad un certo punto. Poi sono le Istituzioni a dover agire».

A sinistra Alessandra Verni, madre di Pamela Mastropietro

Avvocato poi c’è la comunità Pars di Corridonia e un’interrogazione in consiglio regionale rimasta ancora senza risposta. Sembra, finalmente, che si siano però iniziate delle indagini anche su questo fronte…

«Distinguerei i due aspetti: sul lato politico, credo che sia scandaloso che, su una interrogazione simile ancora si taccia. E mi domando il perché, visto che sarebbe (stato) interesse della collettività sapere, in un senso o nell’altro. Sul piano giudiziario, mi auguro che, finalmente, si svolgano quegli accertamenti che da anni, ormai, chiediamo. Ne sono già passati due. Nell’interesse di tutti, ribadisco: questa comunità riceve importanti sovvenzioni pubbliche, e già questo avrebbe dovuto stimolare un interesse a comprendere fino in fondo la dinamica dei fatti che hanno riguardato Pamela, e non solo, come riportato proprio nella interrogazione cui lei ha fatto riferimento».

Tra poco ci sarà l’appello nei confronti di Innocent Oseghale? Quali sono le vostre sensazioni?
«In diversi processi si è assistito a un ribaltamento della sentenza di primo o secondo grado, ma noi siamo sereni in merito all’appello. La Corte d’assise di Macerata è giunta a una giusta condanna, con un percorso logico e giuridico che secondo noi è molto solido e granitico. Non vediamo come si possa arrivare a una sentenza meno afflittiva».

A tal proposito, le faccio una domanda forse ovvia: a causa di alcuni problemi sulle notifiche, potrebbero essere invalidati alcuni accertamenti effettuati sul corpo di Pamela (medico-legali e tossicologici), che sarebbero risultati decisivi per portare la Corte di Assise di Macerata a condannare all’ergastolo il nigeriano Innocent Oseghale. Cosa ne pensa?

«Tale pericolo sarebbe tornato all’attenzione, a causa di un recente pronunciamento con cui si sarebbero espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a dirimere la questione di diritto, proveniente da altro processo, “se sia valida la notifica all’imputato detenuto eseguita presso il domicilio eletto e non presso il luogo di detenzione”. Ebbene, gli Ermellini, all’udienza del 27 febbraio 2020, avrebbero adottato la soluzione secondo cui “la notifica all’imputato detenuto va eseguita presso il luogo di detenzione”. Cosa che, invece, secondo i difensori del nigeriano, non sarebbe avvenuta nei confronti del loro assistito, per alcuni atti riguardanti gli accertamenti di cui sopra. Per quanto ci riguarda, rimaniamo sereni e fiduciosi, sia perché, al di là dell’enunciazione del principio di diritto, dovremo, come tutti, necessariamente attendere la motivazione intera, che potrebbe, naturalmente, prevedere delle sfumature e delle eccezioni, dipoi perché, nel caso concreto, c’è di fatto che il nigeriano abbia più volte, durante il suo stato di detenzione, non solo rinnovato la nomina al suo iniziale avvocato di fiducia, ma anche l’elezione di domicilio presso lo studio di quest’ultimo. In buona sostanza, ha scelto volontariamente e scientemente di non voler ricevere gli atti in carcere (anche per motivi che sono ben immaginabili), ma presso il suo difensore. A ogni modo, ove si verificasse l’imponderabile, valuteremo, anche con la Procura Generale di Ancona, il da farsi».

Il luogo dove Pamela venne ritrovata fatta a pezzi in due trolley a Casette Verdini a Pollenza

Come avete ricordato Pamela a Roma? Cosa pensa di quel che, invece, è stato organizzato a Macerata?
«Lo scorso 30 gennaio, a Roma abbiamo organizzato una messa in suo suffragio nella parrocchia di Ognissanti dove si svolsero, all’epoca, i suoi funerali. Analoghe iniziative ci sono state in molte altre città d’Italia. Per quanto riguarda i famosi diciotto fiori fatti apporre dal Comune di Macerata nel giardinetto antistante l’immobile degli orrori, non possiamo che ringraziare, chiaramente, anche se ci domandiamo perché tutto ciò sia accaduto dopo ben due anni e senza che noi (soprattutto i genitori) fossimo stati minimamente coinvolti nell’organizzazione. Meglio tardi che mai, si potrebbe dire: certamente. Noi non abbiamo mai chiesto o preteso qualcosa: fortunatamente, abbiamo ricevuto la vicinanza di tanti “semplici” cittadini, che, oltre a esprimere dolore per quanto accaduto, tuttora ci chiedono di andare avanti, anche per loro. Al contrario, non sono mancate le male lingue, le offese, gli “inviti” a farci i fatti nostri e le scritte sui muri da parte di qualche idiota».

Qualche giorno fa, è ricorsa la festa delle donne: Pamela, da molti, è considerata anche un simbolo quando si parla di violenza di genere.
«In genere, non amiamo accostare questa sua tragica fine all’argomento “violenza di genere”, non perché Pamela sia superiore alle tante vittime che, nel mondo, derivano da questo fenomeno, ma, sia perché, a livello tecnico sarebbe un errore, sia per evitare che, soprattutto in Italia, qualcuno, o qualcosa, tragga vantaggio dal ricondurre in tale ambito, circoscrivendolo, quei demoniaci fatti evitando così che, ad essere esplorati e indagati, siano i diversi e pericolosi altri aspetti ad essa- mi riferisco alla morte di Pamela- sottesi: mafia nigeriana in primis, secondo i profili di cui abbiamo detto.

Ma è anche vero che, se si parla di violenza di genere, occorre tener presente, sempre di più, tutti gli aspetti che la costituiscono e che ricomprendono non solo la violenza psicologica e sessuale commessa dall’ex partner, con tutte le sue sfaccettature, ma anche terribili altri crimini come la mutilazione genitale, il matrimonio infantile, la tratta di esseri umani, la riduzione in schiavitù, lo sfruttamento sessuale. E la mafia nigeriana, oggi, fa tutto questo, in Italia, in Europa, nel mondo. E se dalla tragica fine di Pamela, possiamo ricavare utili elementi di riflessione al riguardo, diretti e/o indiretti, e di indagine, il nostro dovere è quello di evidenziarli e denunciarli».

L’installazione fatta a Macerata, davanti all’appartamento in via Spalato, lo scorso gennaio dal Comune

Come sta la famiglia, ma in particolare la mamma di Pamela?
«Con una figlia violentata, uccisa e fatta a pezzi in quel modo (perché, al di là del dato processuale, che in primo grado ha comunque così accertato, è questa la nostra convinzione oltre che, per determinati aspetti, l’oggettiva evidenza), non puoi certo vivere serenamente. La sentenza di condanna può essere una importante consolazione ma non ti ridarà indietro questo inestimabile affetto. Di sicuro, permetterà di tenere in galera uno come Oseghale, sperando che ciò che sia successo a Pamela non accada ad altri. Confidiamo, proprio per questo, che l’appello, quando sarà, confermi l’ergastolo».