Gian Domenico Negroni, classe 1964, è un artista che vive e opera a Pioraco. Prima fotografo, per circa un decennio, poi l’inizio di una nuova vita all’insegna dell’attività pittorica. Dal 7 al 23 aprile con i suoi dipinti sarà presente alla Jelmoni Studio Gallery di Milano.
Gian Domenico, dopo tanti anni di professione nel campo della fotografia, come mai hai deciso di interromperla in favore dell’attività pittorica? Puoi parlarcene?
«Sono stati 13 anni molto belli e intensi, la fotografia è sempre stata la mia grande passione. Ho iniziato nel 1990 e fino al 1997 andava tutto molto bene. Purtroppo le cose negli anni cambiano soprattutto quando c’è di mezzo la tecnologia. Verso la fine degli anni ’90, il digitale iniziava a farsi spazio sempre di più e quel mondo che amavo, stava diventando ostico, sintetico! L’arte fotografica stava perdendo quella poesia che fino a quegli anni la rese un’espressione artistica straordinaria. Iniziavo a sentirmi estraneo a quel mondo. Alla fine, nel 2003, quando il digitale oltre a farmi disamorare della fotografia stessa aveva reso l’attività non più remunerativa come agli inizi, decisi di chiudere definitivamente».
Qual è il tema cardine delle tue opere? E come mai hai scelto di utilizzare questi due colori: il rosso ed il blu?
«Dopo la chiusura dello studio fotografico rimasi senza lavoro per qualche mese. Un giorno, casualmente, incontrai un cliente, a lui realizzavo servizi fotografici per i suoi cataloghi. Appresa la notizia che avevo chiuso l’attività mi invitò a vedere un nuovo macchinario nella sua azienda. Insomma, per farla breve mi propose di lavorare con lui come operaio e accettai di buon grado. Questo è stato il momento più buio per me. Non è stato facile entrare in un’officina a 39 anni così, di punto in bianco. Ero convinto che prima o poi sarei crollato. Un giorno, a fine turno, mi piegai sul tavolo di lavoro, appoggiando la testa per evitare di farmi vedere piangere. Lì ho avuto paura… in un attimo di lucidità, ho riaperto gli occhi e a terra vidi gli scarti della giornata lavorativa. Non so il perché, ma li raccolsi e li portai a casa. Qualche tempo dopo, parlando con una persona di questa mia storia, grazie alle sue parole, capii che dovevo fare qualcosa per uscire da questa situazione. Mi dissi… ok. Proviamo a dipingere, a vomitare su una tela tutto questo caos che ho dentro. Lì compresi che quel materiale raccolto quel giorno aveva un senso. Da quel momento spesso la mia pittura sarebbe stata “astratto-materico».
Il blu e il rosso? Il blu l’ho sempre amato, come colore intendo. Ma in quel periodo, il blu aveva un significato particolare. Quando lavoravo in fabbrica, alzavo ogni tanto lo sguardo alle finestre che avevano vetrate opaline. Nei giorni di sereno esse diventavano blu… in quel periodo il blu era la mia via di fuga, i miei pensieri andavano oltre quella vetrata dove trovavo quei luoghi conosciuti e nello stesso tempo inesplorati, questa cosa mi faceva andare avanti. Il rosso l’ho iniziato ad usare poco dopo, è sinonimo di energia, fuoco, potere e sensualità. In base all’intensità e al contesto, il rosso può anche essere percepito come “aggressivo”. L’energia che metto sulla tela durante la realizzazione di un’opera, il fuoco è quello che credo ogni artista dovrebbe avere dentro quando crea, il potere e la sensualità sono le mie caratteristiche quando dipingo. Quando il colore inizia a prendere “forma”, sento il potere che inizia ad impossessarsi dello spazio bianco e indefinito della tela. La passione la trasmetto dal mio subconscio, come un rigetto, uno sprigionamento interiore».

La vera novità della tua pittura sono i materiali, puoi svelarci qualcosa?
«L’inserimento di materiali e oggetti nasce quasi contemporaneamente all’inizio della mia attività pittorica. Il mio primo lavoro, intitolato ‘Senza uscita’, lo realizzai usando gli scarti raccolti in fabbrica giorni prima. L’utilizzo dei materiali di recupero nell’arte informale è stata influenzata dal Dada. Non mi sono inventato nulla. L’uso dei materiali nell’arte è legato al discorso del riciclo. Nel 1999, ad esempio, si arriva a una rappresentazione vera e propria di una ‘coscienza ecologica’ con Regina, un’opera di Enrica Borghi. Si tratta di una figura femminile realizzata interamente con bottiglie di plastica da riciclare. Invece, nel caso della mia prima opera ‘Senza Uscita’, i materiali di scarto non rappresentano una volontà di recupero o quanto meno di riciclaggio, ma la loro presenza è un messaggio. O meglio, raccontano tutta la situazione del disagio e della sofferenza di un periodo difficile. Ed è stato sempre così anche nei lavori successivi. I materiali raccolti per strada, nei giardini, lungo i fiumi, non stanno a significare un qualcosa di ‘ecologico’, ma raccontano assieme al colore, una situazione, un sentimento, o una storia”.
Qual è l’ultima opera che hai realizzato?
«Durante il terribile periodo del Covid, ricordo che ad un certo punto rimasi senza materiali. Non avevo più né tele e né tavole da dipingere. Mi erano rimasti fortunatamente i barattoli dei colori primari. In un armadio avevo molti fogli di carta da acquerello, un tipo di carta molto spesso, della dimensione di 56×74. Quello del Covid è stato un altro periodo che mi ha veramente stravolto. Non poter uscire e vedere la gente e osservare la natura è stato devastante. Devastante fino al punto che iniziai ad immaginare, a guardare mentalmente luoghi che conoscevo. In quel momento l’astratto scomparì dalla mia mente e iniziai a fare paesaggi. Era diventata una necessità, i miei paesaggi erano piccole finestre per osservare il mondo. Ancora oggi il paesaggio è un tema che amo dipingere. ‘Spiaggia’ è la mia ultima tela realizzata, raffigura una spiaggia libera, con sterpaglia alta piegata dal vento».
Il 7 aprile sarai presente alla Jelmoni Studio Gallery di Milano, puoi raccontarci la tua reazione quando sei stato chiamato? Quanto lavoro c’è dietro questo risultato?
«Ogni evento ha la sua importanza. Quando sono stato contattato dalla Jelmoni Studio Gallery avevo addosso un’euforia infinita. La stessa cosa è stata con la galleria ‘La Telaccia’ di Torino che mi permise di esporre ad una collettiva internazionale ad Innsbruck nel 2017, è stata la mia prima mostra all’estero. Un’altra realtà importante è il MAD di Mantova. Quando gallerie così importanti ti contattano, senti che tutto il tuo lavoro, tutto quello che hai fatto, viene apprezzato e questo fa molto piacere, perché sono stimoli forti che ti danno quell’energia e quella voglia di fare sempre meglio. Dietro a questi successi ci sono anni di lavoro, di ricerca, di sperimentazione, alternati da periodi positivi, a periodi di siccità creativa. Ma in ogni caso, tutto serve, anche il momento difficile. Anzi ogni tanto soffrire di siccità creativa serve a rinascere con qualcosa di nuovo».
Hai altre mostre/eventi in programma per questo 2025? Insomma… che cosa bolle in pentola?
«Oltre all’evento di Milano il 7 aprile ci dovrebbe essere un’altra mostra a Londra, ma è ancora tutto da definire. Ci sarà un vernissage il 12 ottobre e l’evento si protrarrà fino al 25 al MAD di Mantova. Poi ce ne sarà una personale a Pioraco presso il polo museale; una mostra sotto casa che inizierà il 26 luglio e finirà il 3 agosto. Altri eventi sono in attesa di conferma».