MACERATA – Confermata anche in Cassazione la condanna a 12 anni di reclusione per Luca Traini, il 31enne tolentinate che il 3 febbraio del 2018 sparò contro passanti di colore ferendone sei.
Oggi pomeriggio, 24 marzo, i giudici della Sesta sezione penale hanno confermato la condanna emessa dai colleghi della Corte d’Assise d’Appello di Ancona per il reato di strage aggravata dall’odio razziale e una serie di reati minori così come chiesto dal sostituto procuratore generale presso la Cassazione Marco Dall’Olio. Alla sua richiesta si sono associate anche le 13 parti civili (di queste oggi a Roma erano presenti i legali Marco Fabiani, Carlo Buongarzone, Gianfranco Borgani e Raffaele Delle Fave).
È stato invece l’avvocato Franco Coppi, a sostenere le ragioni della difesa. Il legale mesi fa aveva impugnato la sentenza di secondo grado assieme al collega Giancarlo Giulianelli (nel frattempo diventato Garante regionale), chiedendone l’annullamento per una serie di motivi, a loro avviso ci sarebbe stata un’erronea applicazione della norma penale (al massimo si sarebbe trattato di tentati omicidi ma non di strage) e una contraddittorietà e illogicità della motivazione. È stato contestato anche il riconoscimento dell’aggravante dell’odio razziale.
Traini il 3 febbraio del 2018 mise sotto scacco l’intera città di Macerata girando per le strade cittadine e sparando con la sua Glock calibro 9×21 contro le persone di colore che incrociava lungo il suo percorso, contro la sede del Pd in via Spalato a Macerata e contro due locali, uno a Sforzacosta e l’altro a Casette Verdini di Pollenza. Alle 10.10 arrivò la prima segnalazione alla centrale operativa del Comando provinciale dei carabinieri. Qualcuno riferì che c’era un uomo che a bordo di un’Alfa 147 di colore nero stava esplodendo colpi di arma da fuoco in diversi punti della città nei confronti di alcuni passanti. Il folle raid si concluse alle 12.30 quando Traini, all’epoca 28enne, salì sulla gradinata del monumento ai Caduti avvolto da una bandiera italiana e lì si consegnò ai carabinieri.
Il tolentinate rivendicò sin da subito di non aver avuto alcuna finalità razzista, di aver agito per vendicare Pamela Mastropietro dopo aver sentito in radio i particolari sul depezzamento fatto sul corpo della 18enne. Disse di non avercela con i neri ma solo con gli spacciatori che a suo dire, all’epoca, erano tutti neri. Ma tra i sei feriti solo uno era poi risultato essere effettivamente un pusher. A cozzare con le sue dichiarazioni ci furono anche altri elementi: gli oggetti che i carabinieri gli trovarono a casa nelle ore successive al raid (una copia del Mein Kampf, di Adolf Hitler, una bandiera con la croce celtica e altre pubblicazioni riconducibili all’estrema destra) e il tatuaggio che ha su una tempia (il simbolo usato da “Das Reich” la panzer division delleWaffen SS di Hitler).