MACERATA – Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un’escalation di episodi di aggressività, in particolare contro le donne e i più deboli. La violenza è diventato un fatto, un fenomeno sociale, un aspetto sempre più “importante” in termini di diffusione nella società. Ne abbiamo parlato con il professore Marcello La Matina, docente di Semiotica e Filosofia del linguaggio all’Università degli studi di Macerata. «Il terzo millennio è iniziato con l’abbattimento delle Torri gemelle, che fu studiato perché fosse fatto violento, ma soprattutto messaggio di violenza – spiega il docente -. Da allora, reale e simbolico sono sempre più presenti nella violenza contemporanea, anche in quella di cui normalmente non verremmo a conoscenza. In tal senso, l’escalation di atti violenti cui assistiamo potrebbe non significare una maggiore quantità o una maggiore portata degli atti violenti, ma una maggiore pervasività della violenza, una capacità di replicazione e di manifestazione che possiamo presumere siano propri di una “società delle immagini” nel senso di Guy Debord. Come dice Lei, e la violenza è sempre più importante: e ciò accade perché le relazioni sociali sono mediate da una quantità prima mai vista di immagini».
Dove possiamo cercarne l’origine?
«Credo che questa spirale di violenza abbia a che fare con la velocizzazione dei processi di conoscenza che la globalizzazione dell’informazione cerca di imporre dappertutto. Conoscere – ci viene insegnato – significa padroneggiare, possedere la cosa conosciuta. I media globali diventano strumenti di potenza. Essi accrescono i possibili oggetti di conoscenza; d’altra parte, essi implementano la loro architettura vorace proprio presentandosi come “sistemi di vita”, cioè nuovi habitat. Accade così che conoscere le cose e le persone (cioè conoscere la vita di certi individui di una qualche specie, naturale o no) non significa più passare del tempo con esse, ma classificarle ora, proprio per non doverle incontrare poi. Questa furia tassonomica riduce il singolare alla specie. Nella vita di tutti i giorni, incontrare il tale o la talcosa è divenuta una fortunata infrazione alla regola; di solito, andando di fretta, si incontra il Tipo astratto. Ci si imbatte sempre più spesso in un uomo, una donna, un albero, quasi mai in quel Tale, quella tale donna, quel tale Albero. E pensare che ci sono ancora oggi popoli che trattano gli alberi come persone, che danno nomi alle singolarità non umane: essi mostrano così di avere una nozione di persona molto più ampia di quella del filosofo tradizionale».
Sono sempre più frequenti le aggressioni fisiche o sessuali che in alcuni casi culminano nell’omicidio, in particolare contro le donne e i più deboli...
«Direi anche gli anziani, gli stranieri, sono un esempio di quel che chiamerei i “portatori di una diversità non riducibile al possesso di tratti comuni”. Il mondo antico, per esempio, assegnava agli anziani il ruolo di senatori, trattava gli stranieri come ospiti e circondava di una siepe di riserbo le donne e i portatori di una diversità incolmabile – come erano i sacerdoti, le sacerdotesse, o i portatori di certi morbi, per esempio. Gli antichi non facevano questo per onorare la classe (o la specie) dei vecchi, degli stranieri, quasi che essi avessero tutti un certo valore by default. No, gli antichi riconoscevano in ciascun individuo non specifico (cioè non riducibile alle proprietà genuine di una certa specie) il mistero di ciò che direi una “presenza di persona”. Nel poema di Virgilio il troiano Enea non abbandona la città distrutta, prima di aver preso su di sé il vecchio padre Anchise e il figlioletto Ascanio; come a significare che non v’è identità nella dimensione presente senza che la linea verticale degli ascendenti e dei discendenti sia visibile. Questa dimensione della diacronia sembra oggi assente nell’Occidente opulento e malato. Oggi noi vediamo nei vecchi, negli stranieri e nelle donne solo delle classi di individui di cui non conosciamo più, né più avvertiamo, la carnalità: siamo ciechi rispetto alla carne vivente che abita in ciascun individuo. Così, abbiamo trasformato gli incontri con le cose singolari in rapporti con gli esemplari (più o meno riusciti, quindi) di una qualche specie o tipo. E per tutelarci dalle diversità che non riusciamo più a tollerare, rinchiudiamo gli anziani negli ospizi, gli stranieri nei centri di raccolta, le donne in casa; e i diversi li sistemiamo in luoghi impersonali, spesso mentali e simbolici, che ci tengano al riparo dal confronto con quel che in loro non sappiamo classificare e dominare».
Potremmo dire che la violenza trae nutrimento dall’odio e dall’invidia verso l’altro?
«L’invidia consiste nel provare dispiacere per il successo altrui; l’odio è invece indifferente al successo della persona odiata. Penso che la passione dominante sia oggi l’invidia, amplificata e nutrita dalla promiscuità mediatica. L’invidia è una patologia del desiderio. Noi desideriamo le cose che qualcun altro ci mostra desiderabili: il desiderio è un fatto sociale. Ora, spesso chi ci mostra le cose desiderabili è anche colui che le possiede. Chi da ragazzo si è innamorato perdutamente della ragazza del suo migliore amico sa a cosa mi riferisco. Quando dunque il desiderio non può trovare un oggetto su cui fissarsi, allora il soggetto desiderante si trasforma in un invidioso. Quello che si teme più spesso oggi è l’infamia, cioè la mancanza di una reputazione, di una visibilità sociale. (Anche qui siamo diversi dagli antichi, che cercavano di costruire la loro fama nella dimensione del tempo, non della contemporaneità). L’invidia viene nascosta e al suo posto si cerca di ostentare indifferenza. Ma i social sono meccanismi perversi, e spesso rivelano nella struttura delle communities quel contenuto che l’invidioso aveva cercato di mascherare. L’invidioso è sempre un potenziale violento. Inoltre, è spesso un vigliacco, perché sfoga la frustrazione su un capro espiatorio – per definizione innocente e del tutto estraneo a quelle tensioni –. Il caso del povero Willy, che in questi giorni scuote la nostra sensibilità, nasconde il complesso groviglio delle passioni dell’invidioso contemporaneo: dall’ostentazione della propria esemplarità, al sentore della singolarità altrui, fino alla incapacità di uscire dall’immagine selfish della propria barbarie».
Perché un vecchio, una donna, un malato, uno straniero (e così tutto quello che non è passibile di una classificazione) diventano oggetto di violenza? Che tipo di violenza è questa?
«La violenza è sempre il trionfo della specie: è un atto tassonomico, un mettere-sopra quel che dovremmo mettere-accanto. Essa consiste nella prevalenza dell’individuo che si considera esemplare di una specie (il sano prevale sul malato, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’anziano). Nella logica della classificazione, la debolezza equivale o alla mancanza di tratti culturali accettati, ovvero al possesso di tratti estranei, cioè non opponibili ai tratti dell’esemplare considerato genuino. Nella violenza è sempre la dimensione personale che viene sacrificata. Nel vecchio non vedo la persona che potrei onorare, nella donna non vedo la persona che potrei amare, ma vedo solo le marche culturali che non sono capace di assorbire. In tal senso, quando parliamo di “violenza personale”, dovremmo intendere l’espressione non nel senso di “violenza compiuta da una persona o su una persona”, ma nel senso di violenza che sacrifica la dimensione della persona alla prevalenza della specie, dell’individuo che meglio rappresenta l’integrità della specie. La violenza per me è fascista e hitlerista in questo senso radicale e non estirpabile».
Odio e invidia diventano più potenti della condanna sociale della violenza. Il pensiero del discredito e della condanna della società sembrano non essere più sufficienti a fermare la mano dell’aggressore, perché?
«Negli anni Sessanta gli antropologi usavano parlare di “civiltà della vergogna”, per indicare quelle culture nelle quali ciò che si teme massimamente è il giudizio di riprovazione del proprio simile: non si fa violenza, perché ci si vergognerebbe davanti agli altri. Diversamente, le “civiltà della colpa” sono quelle che hanno interiorizzato la norma e temono la sanzione divina o di una autorità distale, collocata in uno spazio superiore: non uccidere, per esempio, è uno dei deka logoi del Dio di Israele. Queste definizioni antropologiche non si adattano al complesso presente di cui parliamo. Chi commette violenza cerca e spesso trova l’approvazione sociale; d’altra parte, chi riconosce di aver commesso violenza spesso riconosce di non provare alcuna colpa. Trovo invece ancora sensata la definizione di Debord, sebbene vorrei ritoccarla facendo uso di una idea di Roland Barthes. Io direi che siamo membri di una società dell’ “immagine-a-colori”, salvo che questa immagine è quella della fotografia digitalizzata. Siamo per questo incapaci di leggere la singolarità che la vecchia immagine in bianco e nero poteva rivelare a chi passava sufficiente tempo con essa. Siamo divenuti incapaci di lasciarci “pungere” dalle immagini, siamo insensibili al punctum che l’immagine fotografica in bianco e nero possiede per il semplice fatto di essere unica e irripetibile. Non vediamo più il mondo come una fotografia, cioè come una “scrittura della luce”».
La violenza non solo come fenomeno sociale, ma culturale. Quanto la cultura può contrastare la diffusione della violenza? Da chi e da dove dovrebbe partire questa rivoluzione culturale? È davvero possibile una rivoluzione culturale di questo tipo?
«Ho ricordato in precedenza l’eroe troiano Enea, che il poeta Virgilio scelse come padre della civiltà cui apparteneva. Enea ci ricorda che non vi è una fondazione che possa lasciare inoperoso il passato dalle cui membra usciamo. Qualsiasi rivoluzione culturale equivale alla fondazione di una città, alla ricerca di una città che sia il luogo per il futuro della comunità e contemporaneamente il luogo dove il passato che conta possa rivivere (“antiquam exquirite matrem”, scrive Virgilio: “cercate l’antica madre”: così il padre Anchise ammoniva il figlio e i troiani tutti). Vorrei trarre spunto da un episodio dell’Eneide, per dare forma al mio pensiero. Nel terzo libro del poema si racconta dell’approdo di Enea in una terra straniera alla ricerca di legna e fogliame adatti alla celebrazione di un sacrificio. Enea si avvicina a un cespuglio di rovi e strappa un rametto. E subito (“prodigio orribile e tremendo a dirsi”, commenta il poeta) vede sgorgare del sangue da quegli sterpi: i quali subito si fanno voce: la voce di Polidoro, figlio di Priamo, che racconta come sia stato ucciso a tradimento e poi trasformato in questa pianta senza nome. Virgilio ci mostra Enea mentre ritrova nella sterpaglia una presenza di persona. Egli è l’eroe che trasforma una confusa pluralità dell’ambiente naturale in un vincolo personale e identitario, che storicizza la natura e le conferisce un senso comunitario. Enea possiede e manifesta quello che a mio avviso servirebbe. Ricostruire a mezzo della memoria e della storia la “persona ambientale”, facendo uscire le cose della mera materialità della specie e del genere, per conferir loro lo statuto simbolico che possa consegnarle alla memoria e al rispetto. Se, come s’è detto, la violenza è sempre la vittoria della specie e dell’individuo a scapito della persona, allora fare-persona del moderno “sciame digitale”, leggere la personalità latente nelle cose, può rivelarsi una strada promettente».