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«Haring a Osimo, altro che l’America»

La professoressa Silvia Donati, docente di Disegno e Storia dell’arte, esperta di arte contemporanea e sostenitrice di Progetto Osimo Futura, analizza con occhio critico il nuovo allestimento a Palazzo Campana

La professoressa Silvia Donati

OSIMO – La mostra di Keith Haring sulla street-art, inaugurata ad Osimo lo scorso 23 luglio, rappresenta una grande occasione sprecata per portare la città sotto i riflettori nazionali e non. Con la giusta organizzazione e incuriosendo il visitatore con una campagna di informazione accattivante, si sarebbe potuto mettere in piedi qualcosa di estremamente innovativo, facendo vivere un’esperienza immersiva nell’arte dei graffiti. Invece, come spesso accade in Italia, ci si è limitati alla semplice esposizione delle opere. La professoressa Silvia Donati, docente di Disegno e Storia dell’Arte, esperta di Arte Contemporanea nonché sostenitrice di Progetto Osimo Futura, analizza con occhio critico il nuovo allestimento a Palazzo Campana.

«La mostra “Made in New York”, che vede come protagonista uno dei pionieri dell’arte dei graffiti, Keith Haring, affiancato a Buggiani (artista contemporaneo italiano che venne a contatto con lo street artist proprio nella Grande Mela), risulta l’ennesimo spaccato di ciò che in Italia andrebbe modificato, migliorato e riformulato non tanto per un discorso divulgativo, ma piuttosto istruttivo. C’è da chiedersi perché funzioni molto di più una mostra mordi e fuggi, magari promossa da pagine Instagram scelte con cognizione di causa, che un lavoro ben più oneroso di formazione e informazione affinché venga valorizzata nel giusto modo e con criteri appropriati. Ma si sa, i numeri li fanno i biglietti staccati, non le menti conquistate. Anche se conquistando più menti si possono vendere più biglietti».

Analizza la professoressa Donati: «I graffiti sono solo una delle mille sfumature che colorano la scena hip hop americana e, per promuoverne in maniera efficace il forte messaggio che la caratterizza, sarebbe stato auspicabile far rivivere in città quelli che sono stati i principali elementi di questa che è una vera e propria cultura con profonde radici, dalla break dance al beatbox passando per l’emceeing. Solo uno di questi aspetti è stato esaltato: il deejaying, che tanto ha fatto discutere nella famosa “Vertical Night”, idea poco appropriata in periodo post lockdown».

La professoressa Donati si domanda perché nella mostra non si approfondisca la motivazione, la scelta, lo stile, la storia, il contesto dell’artista, dando invece tutto per scontato. «Perché comprare a scatola chiusa un pacchetto preconfezionato scevro di contenuti accattivanti, se non quelli strettamente legati al percorso espositivo? Da una parte ci sono gli interventi di Haring nella metropolitana di New York (pannelli lavorati con gessetti) salvati da Buggiani negli anni ’80, dall’altra le foto dello stesso Buggiani, che in quel periodo si applicava nell’arte della performance urbana tra i grattacieli di New York, attraverso interventi estremi attuati in prima persona. Il tutto si conclude nella cappella di fine ‘700 di Palazzo Campana, con un allestimento di animali realizzati da Buggiani, in lamiera leggera, che poco c’entrano con il contenitore che li ospita, con questa sensazione vaga di sacro mischiato al profano decisamente non necessaria».

Commenta l’esperta: «Resta un enorme interrogativo su quanto sia importante far interagire in modo adeguato contenitore e contenuto, su come si possa rendere accattivante una proposta e quanto questa sia realmente efficace in un contesto culturale che non ha tradizioni hip hop, ma che si presterebbero tranquillamente ad essere esaltate, nella giusta maniera, anche in ambiente contemporaneo. Basterebbe affacciarsi a ciò che va di moda in maniera intelligente e non seguendo il flusso della quantità di followers che possono soddisfare un temporaneo successo per questo tipo di iniziative, cercare di mantenere una costante attenzione verso il pubblico, accendendone l’interesse e accompagnandolo man mano a conoscere. La condivisione dovrebbe essere reale, non esclusivamente virtuale: solo così è possibile accrescere in tutte le generazioni quel senso di appartenenza a un ampio contesto artistico, che si sta a poco a poco affievolendo dentro a un calderone di proposte non sempre convincenti. Riformuliamo, modifichiamo e rendiamo alla portata di tutti il nostro di patrimonio, altro che l’America».