PESARO – Settori del tessile, gomma e vetro: la cassa integrazione, dovuta all’emergenza coronavirus, pagata solo a un quarto dei lavoratori. E le difficoltà sono tante.
A spiegare cosa sta succedendo è il segretario generale della Filctem Cgil Pesaro Urbino Andrea Piccolo.
«Il 70 per cento delle aziende della nostra categoria che rappresenta i lavoratori del vetro, tessile, gomma plastica, chimica, energia e petrolio – scrive il segretario – è rientrato fin da subito nei famosi codici Ateco (ovvero i codici che identificano le attività economiche, alle quali si consentiva la prosecuzione dell’attività). Buona parte del restante 30 per cento ha cominciato fin da subito ad organizzarsi ben prima del 4 maggio con la richiesta di deroga prefettizia.
In questi due mesi l’attività della categoria non si è mai interrotta, dapprima per garantire la sicurezza dei lavoratori nella fase in cui il governo non aveva indicato con chiarezza le misure da adottare nei luoghi di lavoro, poi nella gestione delle richieste di cassa integrazione che arrivavano quotidianamente, infine per sottoscrivere gli accordi di sicurezza obbligatori per la riapertura.
Le problematiche sono state tantissime. La più difficile è legata alle difficoltà economiche che stanno ancora subendo tanti lavoratori. Sono infatti pochissime le aziende che hanno anticipato il pagamento della cassa integrazione e ad oggi i bonifici arrivati da parte di Inps e Regione Marche sono stati 1/4 del totale.
Anche il Decreto “Ripartenza” annunciato il 13 aprile, non risolve il problema in quanto da una prima lettura l’anticipo del 40% in 15 giorni da parte dell’Inps riguarda le casse integrazioni che saranno attivate da giugno in poi. Se aggiungiamo le enormi difficoltà incontrate per attivare con le banche la sospensione dei mutui prima casa e per ottenere le anticipazioni degli importi di cassa integrazione la situazione economica per molte famiglie è drammatica.
Chi ha continuato a lavorare invece si è trovato ad affrontare la difficile gestione dei figli. Scuole chiuse, nonni da tutelare, lavoro da svolgere: organizzarsi è stato ed è davvero complicato».
Altro tema lo smart working. E la categoria non è del tutto soddisfatta dell’utilizzo. «Chiariamo subito che quello che si è messo in atto in fretta e furia ha poco a vedere con un vero ed efficiente smart working; prevalentemente si è trattato di un lavoro da remoto, non organizzato correttamente che ha costretto i dipendenti a lavorare senza pause, ben oltre gli orari di lavoro e con strumentazioni informatiche spesso condivise con altri famigliari, in particolare figli impegnati nelle video lezioni scolastiche.
La situazione attuale vede moltissime imprese aperte ma pochi protocolli di sicurezza sottoscritti e questo espone ad un altissimo rischio i tanti che tutti i giorni sono al lavoro con il concreto rischio che le misure messe in atto fino ad oggi si rivelino inefficaci e che i contagi nel giro di poche settimane tornino a crescere. Troppo poche le aziende che con solerzia e attenzione hanno predisposto Protocolli di Sicurezza e hanno intraprese il percorso di confronto con le organizzazioni sindacali aziendali e territoriali».
L’accusa di Piccolo è chiara: «In molti casi questo percorso, pur sollecitato da parte nostra, non è stato intrapreso ed il rischio concreto è che siano moltissime le aziende, in particolare dove i lavoratori non sono organizzati, se si trovino in balia di imprenditori che pensano più ai profitti che alla sicurezza. Purtroppo una parte dei datori di lavoro vede ancora la sicurezza come un costo aziendale da contenere; in questi giorni sono tornate in mente le parole di Giulio Tremonti in occasione della stesura del Testo Unico della Salute e Sicurezza: “Il testo unico è un lusso che non ci possiamo permettere” disse l’ex ministro del Governo Berlusconi, ebbene, dopo 12 anni siamo ancora allo stesso punto: la sicurezza è considerata un costo, possibilmente riducibile, a discapito dei lavoratori e della collettività».