ANCONA – Qual è l’impatto della tecnologia sugli individui? La cosiddetta intelligenza artificiale inciderà sui nostri diritti e sulle libertà fondamentali? Quesiti affascinanti e complessi, a cui cerca di dare quotidianamente risposta Simona Tiribelli, una ricercatrice di 26 anni tornata poche settimane fa dagli Stati Uniti. Negli Usa la studentessa pesarese ha svolto un periodo di ricerca intensiva di sette mesi, su invito della Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, grazie all’ottenimento della prestigiosa borsa Fulbright, a cui partecipano il Ministro degli Affari Esteri Italiano e l’Ambasciata americana.
Simona Tiribelli si occupa proprio di Etica dell’Intelligenza Artificiale. È dottoranda in Global Studies. Justice, Rights, Politics presso l’Università di Macerata e Fulbright Research Fellow presso il MIT Media Lab. «La valutazione dell’impatto etico di una determinata tecnologia, insieme alla progettazione della medesima secondo valori e principi riconosciuti collettivamente – spiega -, è l’unica via oggi per potere pienamente beneficiare dell’enorme potenziale tecnologico, al contempo prevenendo o mitigando i rischi che inevitabilmente porta con sé».
Dottoressa Tiribelli, piacere di conoscerla, innanzitutto. Dopo sette mesi negli States è tornata in Italia. È cambiata la sua routine?
«Oggettivamente direi di no – la risposta -. Sono tornata in Italia per completare il mio dottorato di ricerca, il quale, nel mio caso specifico, intende rispondere esattamente alle sfide relative ai miei studi. La mia quotidianità, al di là del fuso orario, non è poi così cambiata: con il lockdown negli States abbiamo iniziato a lavorare mesi fa da remoto e ora continuo dall’Italia a collaborare su progetti e ricerca sia con il MIT che con l’Università di Harvard».
Ha vissuto in prima persona, insomma, anche l’emergenza Covid…
«Boston è una città dalla grande sensibilità socio-culturale: fin da subito ho avvertito la serietà della città e un forte impegno della collettività sia nel rispetto delle misure segnalate dalle autorità sanitarie, prima ancora che divenissero ordinanze delle istituzioni politiche, che nella celere riprogettazione degli spazi comuni, del lavoro e delle modalità di accesso ai servizi fondamentali. Tuttavia, Boston riflette solo una piccolissima parte della società americana».
Cosa intende?
«Considerando un quadro più ampio, la pura forma (come “assenza di contenuti”) e la mancanza di una sostanziale visione a lungo termine della politica trumpiana ha lasciato i vari Stati alle più disparate e, spesso, arbitrarie decisioni dei relativi Governatori: chi ha negato che la minaccia fosse reale, oggi si trova ovviamente nelle condizioni peggiori (si veda lo Stato della California). Al mio ritorno in Italia ho subito avvertito quanto l’information overload (la cosiddetta “infodemia”) e, soprattutto, il filtro mediatico nazionale a cui siamo esposti ci forniscano un’immagine molto più sfocata, approssimativa e omogenea del fenomeno della pandemia in America: è un Paese profondamente diversificato al proprio interno e molto polarizzato. Tuttavia, caratterizzato da una sfera pubblica reazionaria e un dibattito socio-politico vivace. Basti pensare alle proteste per i diritti civili relative alle costrizioni delle libertà fondamentali adottate per il contenimento della pandemia e ai mesi di manifestazioni (pacifiche e non) in risposta alla drammatica vicenda di George Floyd».
Il suo lavoro, fra l’altro, è strettamente legato alla tecnologia, dunque agli strumenti con cui gli States stanno tentando di fronteggiare il coronavirus…
«A luglio si contavano già 59 Stati che in tutto il mondo avevano deciso di adottare tecnologie di digital contact tracing per il contenimento della pandemia. Lo scenario è in continua evoluzione. Anche gli Stati Uniti hanno intrapreso la medesima direzione. Ogni Stato, però, come detto, sceglie quale servizio tecnologico impiegare. Questo può divenire problematico se viene meno quella coesione o interoperabilità tra sistemi cruciale al raggiungimento di quella soglia d’adozione (40%-60%) che rende tale tecnologia davvero efficace (si pensi al deludente caso di Singapore) e, aggiungo, sostenibile in termini di costi».
Sta effettuando approfondimenti specifici sul tema?
«Sì. Sono onorata di essere stata coinvolta negli States, in qualità di ethicist, in un progetto di grande valore che oggi prende il nome di PathCheck Foundation: no-profit nata al MIT e ispirata da una missione/visione a lungo termine: contenere la pandemia, rivitalizzare l’economia e creare comunità resilienti attraverso lo sviluppo di soluzioni e servizi digitali interoperabili (app, sensori, tecnologie d’IA per il contenimento della pandemia), open-source (trasparenti) e, soprattutto, salvaguardanti la privacy e la libertà dei cittadini. Strumenti creati ad hoc per contenere questa crisi epidemiologica ma, al tempo stesso, ideati al fine di poterne usufruire per prevenire e fronteggiare emergenze future. Insieme a un gruppo meraviglioso composto da ricercatori del MIT e di Harvard ci impegniamo quotidianamente affinché tali servizi siano globalmente accessibili nel rispetto dei principi di inclusione e giustizia, assistendo i vari Stati nell’adozione di soluzioni tecnologiche in linea con le differenti politiche statali e rispondenti alle relative specifiche necessità, accompagnando e supervisionando ogni fase dell’implementazione tecnologica affinché risulti conforme ai diritti e alle libertà dei cittadini».
La tecnologia può svolgere, dunque, un ruolo decisivo in questa crisi sanitaria?
«Assolutamente sì. Ma non è la panacea della pandemia. Anzi, se viene a meno il rispetto di determinati parametri etici, può determinare ulteriori rischi e conseguenze irreversibili in termini di privacy (soprattutto: privacy di gruppo), diritti umani e libertà civili, generare stati di sorveglianza, erodere la fiducia tra cittadini, governi e compagnie tecnologiche e, soprattutto, lasciare a queste ultime, in quanto principali provider di tali servizi, un ruolo indiscriminato nella progettazione e nell’impiego di tali soluzioni. Su questi temi, gli aspetti etico-giuridici della risposta tecnologica alla pandemia, avevamo anche già iniziato a riflettere qualche mese fa nella nostra Università di Macerata attraverso una serie di seminari online coordinati dalla mia supervisor, la professoressa Benedetta Giovanola».
Pensa di tornare negli States?
«Di certo tornerò per progetti, collaborazioni e conferenze. Il mio desiderio è quello di poter continuare a lavorare tra Italia e Stati Uniti. La pandemia ci ha rivelato come, con serietà, impegno e dedizione, ormai i confini geografici contino relativamente e, soprattutto, ci siano tutti gli strumenti per lavorare bene ovunque (aggiungendo con un pizzico di sarcasmo: «Purché, ovviamente, ci sia rete» ndr.)».
A un coetaneo suggerirebbe l’esperienza all’estero?
«La consiglierei a chiunque. È un’esperienza altamente formativa, sia a livello personale che professionale: scopriamo quali sono i nostri orizzonti (e i nostri limiti) solo intravedendone di nuovi. Per coloro che si occupano di temi e sfide globali è invece doveroso intraprendere un percorso internazionale: solo contaminandoci e adottando prospettive a noi inedite è possibile acquisire quelle lenti per individuare risposte che apportino significati, veicolino valori e producano risultati globalmente condivisibili».