Pesaro

Giornata del Ricordo, una pagina nera e complessa: «Rendere giustizia significa cercare di capire cosa sia successo»

Durante l'incontro “L’Alto Adriatico nel Novecento" lo storico Prof. Federico Carlo Simonelli ed il collega Marco Labbate hanno cercato di analizzare quanto accaduto nelle zone di confine italiane

Foiba di Basovizza (foto di Antonio Nardelli - Adobe Stock)

FANO – Ricordare per non ripetere gli stessi sbagli: è questo lo scopo della giornata del ricordo, una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno che commemora i massacri delle foibe, ovvero gli eccidi ai danni di militari e civili italiani autoctoni della Venezia Giulia, del Quarnaro e della Dalmazia, avvenuti durante e subito dopo la seconda guerra mondiale da parte dei partigiani jugoslavi e dell’OZNA. Il nome di tali eccidi deriva dai grandi inghiottitoi carsici (chiamati in Venezia Giulia “foibe”) dove furono gettati molti dei corpi delle vittime.

A quei fatti drammatici seguì l’esodo giuliano dalmata, ovvero l’emigrazione della maggioranza dei cittadini di nazionalità e di lingua italiana dalla Venezia Giulia (comprendente il Friuli Orientale, l’Istria e il Quarnaro) e dalla Dalmazia, nonché di un consistente numero di cittadini italiani (o che lo erano stati fino poco prima) di nazionalità mista, slovena e croata, che si verificò a partire dalla fine della seconda guerra mondiale e nel decennio successivo. Si stima che i giuliani (in particolare istriani e fiumani) e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino ad un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.

Una pagina tragica di storia nazionale ed europea, che è stato possibile approfondire ed analizzare grazie al Prof. Federico Carlo Simonelli, storico e collaboratore della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” e della Società di Studi Fiumani, che è intervenuto durante il consiglio comunale speciale di Fano svoltosi il 9 febbraio ed intitolato “L’Alto Adriatico nel Novecento. Storia e memorie del confine orientale d’Italia” .

Ad introdurre l’analisi di Simonelli è stato il collega e storico fanese Marco Labbate, vice presidente dell’istituto Iscop: «Quando la storia assume particolari elementi di complessità, come può accadere nei luoghi di frontiera e com’è nelle terre dove si consumò la tragedia delle foibe, le parole possono diventare sdrucciolevoli, scivolose. L’accurato studio storico dei fatti è dunque il modo più corretto di rendere onore e giustizia a tanta sofferenza».

Nella sua analisi Simonelli ha spiegato come sia difficile inserire le foibe e l’esodo giuliano-dalmata in una dimensione temporale specifica. Questi fenomeni infatti sono frutto di un lungo percorso storico, che inizia nell’Ottocento, quando quella regione multietnica divenne oggetto di contesa da parte dei culti nazionali italiano e slavo, e si concluse nei primi anni ’50 del secolo scorso, quando la sconfitta dell’espansionismo fascista e l’affermazione della Jugoslavia titoista spinse molti italiani a partire. Si stima che furono circa 350.000 le persone che lasciarono la loro casa sull’altra sponda dell’Adriatico».

Un orrore complesso e poco compreso, come avviene spesso con la Shoah: «Mi riferiscono alcuni colleghi come a scuola spesso gli studenti manifestano apertamente poco coinvolgimento per i fatti delle foibe, in quanto percepiti come lontani nello spazio e nel tempo. Se riusciamo ad analizzare un avvenimento di questa portata e capire l’origine delle lacerazioni e dalla rappresentazione, allora riusciamo ad acquisire una maggiore consapevolezza di quanto stiamo ricordando».

Un addio dal lungo respiro, causato da diversi fattori: «Lo spopolamento iniziò durante la Seconda guerra mondiale, quando alcune città come Zara e Fiume furono sottoposte ai pesanti attacchi degli Alleati. Le partenze iniziarono dopo le prime repressioni partigiane nel 1943, ma la maggior parte fu provocato – più o meno direttamente – dall’amministrazione jugoslava. L’imposizione di dichiarare la propria nazionalità portò infatti a un inasprimento sociale verso coloro che si dichiararono italiani, creando le condizioni per la loro partenza».

«Non si può parlare di genocidio – ha inoltre specificato – perché al contrario della Shoah non si ritiene ravvisabile un’epurazione scientifica su base etnica, nonostante una narrazione ricorrente dica che gli italiani furono uccisi in quanto tali. Le autorità titoiste – ha specificato Simonelli – intendevano colpire chiunque risultasse di ostacolo al nuovo potere». A titolo di esempio, ha aggiunto lo storico lombardo, si stima che la repressione «provocò anche 60.000 vittime croate, fra ustascia e accusati di collaborazionismo».

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