URBINO – Coronavirus e inquinamento, il fisico Umberto Giostra e la chimica ambientale Michela Maione dell’Università di Urbino fanno chiarezza rispetto ad alcune correlazioni.
Nelle ultime settimane l’attenzione di buona parte della comunità scientifica si è focalizzata su questioni collegate all’epidemia da Coronavirus. I media danno risalto quasi quotidianamente a studi più o meno preliminari sull’argomento. In una situazione di emergenza come quella attuale, si verifica un allentamento dei processi di peer review (revisione paritaria o valutazione tra pari), cui normalmente sono sottoposti gli articoli scientifici prima della pubblicazione su riviste specializzate. Questo comporta il rischio che si possa assistere ad un proliferare di studi che presentano risultati plausibili, ma non sostenuti da una statistica sufficientemente robusta.
«Nemmeno la comunità delle scienze dell’atmosfera si è sottratta a questo rischio – spiegano Maione e Giostra -. Dallo scoppio della pandemia ad oggi sono infatti comparsi diversi articoli, anche redatti da gruppi di ricerca molto prestigiosi, nei quali vengono messi in relazione i livelli di inquinanti atmosferici (gas o particolato) e il numero dei contagi da SARS-CoV-2, studi questi che hanno interessato le zone maggiormente colpite dall’epidemia, incluso il nord Italia. Poiché i processi che sottendono l’esposizione della popolazione all’inquinamento atmosferico sono già di per sé piuttosto complessi, è alta la possibilità di fraintendimenti, anche da parte degli organi di stampa che riprendono e divulgano i contenuti di questi studi.
È un dato accettato che il particolato atmosferico, specialmente la frazione con diametro inferiore a 2.5 micron (PM2.5), sia responsabile di 420.000 morti premature all’anno in Europa, delle quali 58.000 in Italia. I danni derivanti dall’esposizione al PM 2.5 (classificazione numerica data alle polveri sottili in base alle dimensioni medie delle loro particelle, ndr.) riguardano essenzialmente gli apparati respiratorio e cardiovascolare, gli stessi interessati da COVID-19, la malattia che si sviluppa in seguito ad esposizione a SARS-CoV-2. Una popolazione maggiormente affetta da questo tipo di patologie è quindi a rischio di sviluppare una forma più grave di COVID-19. Ne deriva che l’esposizione all’inquinamento atmosferico può, verosimilmente, contribuire ad aumentare la vulnerabilità della popolazione al COVID-19.
Potrebbe invece essere più azzardato stabilire una correlazione diretta tra i livelli di particolato atmosferico osservati ed il numero di casi di COVID-19 verificatisi in nord Italia nel mese di Marzo 2020. Questa ipotesi, descritta recentemente in un articolo attualmente in pre-print, si basa su un approccio che nel passato ha mostrato alcune evidenze importanti ed è pertanto plausibile.
Tuttavia sarebbe auspicabile un’analisi più accurata, possibilmente supportata da un data base più solido, che prenda in considerazione un periodo più lungo e altre variabili rilevanti. Questo allo scopo di escludere e/o quantificare il ruolo di tutti gli altri fattori (densità di popolazione, numero di contatti, così come livelli di altri inquinanti, ecc.) che potrebbero presentare ugualmente alte correlazioni con il numero dei contagi.
Quindi, mentre sta ancora aspettando conferme più solide per stabilire la relazione tra particolato e virus, il mondo della ricerca può intanto attivarsi per possibili applicazioni utili nella gestione della temuta seconda ondata autunnale. Ad esempio, la concentrazione di SARS-CoV-2 nell’aria potrebbe in futuro essere utilizzata come un indicatore dell’intensità della diffusione del virus nel sito analizzato.
Riassumendo, la relazione causa-effetto tra particolato atmosferico e SARS-CoV-2 è una stimolante linea di ricerca che deve ancora superare il vaglio di controlli più approfonditi».