Pesaro

Intervista a Federico Buffa, a Mondolfo con “Due pugni guantati di nero”

Intervista al giornalista che ha rivoluzionato la narrazione dello sport che, accompagnato dal pianoforte, farà rivivere la protesta simbolica di Smith e Carlos

Federico Buffa porta al Teatro La Fenice di Senigallia “Rivadeandrè. Amici fragili”
Federico Buffa porta al Teatro La Fenice di Senigallia “Rivadeandrè. Amici fragili”

MONDOLFO – Ci sono momenti che si fissano come istantanee nella storia sportiva e vanno ben al di là della performance o del risultato. Un posto d’onore spetta sicuramente a quando accaduto il 16 ottobre 1968 alle Olimpiadi a Città del Messico. I velocisti Tommie Smith e John Carlos sono rispettivamente sul primo e sul terzo gradino del podio dei 200 metri. Voltandosi verso la bandiera statunitense sopra gli spalti abbassano la testa. Indossano un guanto nero, hanno il pugno alzato, i piedi scalzi, la giacca della tuta aperta e al collo una collanina di pietre, per ribadire la battaglia per i diritti civili degli afroamericani. Sul secondo gradino dello stesso podio sale l’australiano Peter Norman, che per solidarietà con i due atleti indossa la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights.

Quella protesta simbolica mette però subito fine alla carriera di Smith e Carlos, trasformandone la vita in un inferno di critiche, minacce e intimidazioni: uno camperà lavando auto, l’altro come scaricatore al porto di New York. I due diventano comunque eroi della comunità afroamericana. Solo molti anni dopo sarà riconosciuto che non erano due neri e un bianco a chiedere rispetto e giustizia su quel podio ma tre esseri umani. Nel 2005 Norman sarà con loro, per l’inaugurazione di un monumento che ricorda quel giorno in Messico. Con la sua ben nota capacità di raccontare l’umanità che si annida a volte nei fatti di sport, il giornalista e telecronista sportivo Federico Buffa, accompagnato dal pianoforte di Nidi, si prepara a rivivere in piazza a Mondolfo quella giornata.

Quello che è avvenuto a Città del Messico nel 1968 è qualcosa che va al di là dello sport, è un momento immortale e iconico. Perché pensa che sia così importante riproporlo oggi?
«Guarda, questa risposta te la darebbero direttamente i due protagonisti Tommy Smith e John Carlos e soprattutto l’uomo che li ha ispirati, ovverosia il loro professore di sociologia che si chiama Harry Edwards, un seguace di Malcom X. Forse tu ricorderai che nel 2016 Colin Kaepernick, quarterback del San Francisco 49ers si inginocchiò all’inno nazionale per una stagione e da lì non poté più toccare una palla da football. Ecco, la persona che quasi 50 anni dopo ispira Kaepernick è lo stesso professore… perché lo fa? Perché pensa che dal 1968 al 2016 sia cambiato troppo poco. La grande differenza la fa stavolta però LeBron James che alza il telefono, chiama la Nike dicendo che Kaepernick ha avuto il coraggio di parlare per tutta la comunità afroamericana, coraggio che perfino lui ammette di non avere avuto e spunta per lui, ovvero un giocatore che di fatto non giocava, un contratto milionario. Questo per dirti che, in fatto di diritti, le cose non sono cambiate abbastanza tra il 2016 ed il 1968 e quindi è necessario continuare, avendo enorme visibilità con le vicende dei grandi sportivi, a far sentire le nostre ragioni su questo tema».

Lo sport dovrebbe essere veicolo di valori: perché continua a non perdonare chi si ribella?
«Prendiamo ad esempio le normative del nostro Paese. Fino al 1981, i giocatori di calcio italiani erano sottoposti al vincolo di obbedienza: la società aveva il potere di far smettere di giocare il giocatore che non obbediva; una situazione impensabile dal punto di vista odierno. Ora, dal 1981 ad oggi la situazione è cambiata e c’è molta più libertà di movimento all’interno del mondo calcistico quasi che la situazione si sia ribaltata: oggi si dice che i procuratori sportivi condizionino troppo il calcio a causa dell’eccessiva posizione di potere e si è arrivati di fatto all’estremo opposto, anche se va detto che questo vale per il calcio di vertice. Nelle serie minori non è così, in SERIE C non è semplice fare il calciatore: molte squadre non pagano, utilizzano gli Ultras come deterrente, resta un mondo ancora molto vessatorio per l’atleta nonostante il contratto. La bellezza ed il potere dietro alcuni gesti possono far accendere i riflettori e dare visibilità a coloro che di fatto sono molto meno visibili. I calciatori italiani ad esempio non se la sono mai sentita di fare uno sciopero per garantire maggiore sicurezza ai colleghi delle serie minori perché il sistema li guarderebbe male, ma gli americani da questo punto di vista sono molto più forti, molto più corporativi: vogliono rappresentare anche quelli che non guadagnano come loro o che non godono della stessa visibilità. Da noi ad esempio l’Associazione Calciatori Italiana non ha praticamente potere e non viene mai consultata….hai mai sentito l’opinione vincolante dell’Associazione calciatori? No, semplicemente perché non c’è. Invece, negli USA, la negoziazione collettiva è fortissima, da questo punto di vista, rispetto a noi, sono di un altro pianeta».

Quando si parla di diritti civili e razzismo è visibile una stucchevole prosopopea fatta di slogan e messaggi che spesso poco o nulla centrano con quello che vediamo andare in scena sul campo: che ruolo dovrebbe avere realmente lo sport per educare ai diritti civili ed al rispetto?
«Io penso che nel nostro Paese bisognerebbe insegnare a scuola determinati valori: è quello il momento ed il luogo in cui ci formiamo dal punto di vista educativo e la scuola in Italia purtroppo ha clamorosamente abdicato quando si tratta di insegnare lo sport ai ragazzi. Non facendolo a mio avviso ha perso un’enorme possibilità per ispirare una cultura di rispetto dando un valore sociale allo sport».

È sconcertante vedere quanti pochi passi siano stati fatti in mezzo secolo, penso ai cori razzisti negli stadi di cui si legge ogni domenica…
«Il discorso è complesso e per capirlo bisognerebbe parlare non solo di sport ma di società italiana, o spagnola e via discorrendo… mi commuovono però gli esempi in positivo che mostrano come altre strade siano percorribili: ci sono storie magnifiche di realtà che intraprendono un percorso comune, ad esempio gli All Blacks, probabilmente la mia squadra sportiva preferita: in un luogo dove la minoranza non è stata sottomessa, grazie al rugby sono riusciti a trasmettere una cultura lontanissima al resto del mondo; io li adoro perché rappresentano una fusione di culture, un esempio forse unico nel mondo dello sport».

Da grande narratore quale è, ha avuto l’opportunità di raccontare tantissime storie: quale è quella a cui è più affezionato?
«Probabilmente la narrazione di Muhammad Ali. Io non la voleva fare perché mi sembrava un qualcosa di insormontabile, poi il mio direttore Ferri mi ha convinto… ma di fatto continuo a considerala una sfida insormontabile: stiamo parlando di un uomo che è stato in cima al mondo per 50 anni, e non nel mondo di adesso ma a cavallo degli anni ’60 e ’80, l’unico uomo che per lungo tempo poteva viaggiare senza passaporto perché lo avrebbero riconosciuto tutti, e anche qui parliamo di un periodo dove non c’erano i mezzi di comunicazione di oggi… è stato il primo ad avere una gestualità ed un impatto che ha trapassato lo sport… raccontare la sua storia è stato veramente toccante».

C’è invece una storia che non ha ancora raccontato ma che Le piacerebbe raccontare?
«Si, ma non è sportiva. Non so se ricordi l’intervento del 2007 di Steve Jobs all’Università di Stanford in cui lui dice la celeberrima frase “Stay hungry, stay foolish”. Quella espressione, anche se viene attribuita a lui, non è sua… io vorrei raccontare la storia di quell’uomo che l’ha veramente pronunciata e che si chiama Stewart Brand, è vivo, vive su di una barca ed è il reale padre del mondo che vediamo: tutto quello che lui ha pensato negli anni ’80 è il centro della cultura odierna della Silicon valley. Io sono pazzo di lui ma nessuno ancora ha accettato questa mia proposta».