SENIGALLIA – Tra gli ospiti del Marzocca Summer Festival, realizzato dal lavoro di volontariato dell’infaticabile Comitato Enjoy Marzocca, anche il gruppo di danza orientale Manaar Danza del Ventre, della palestra Boomerang, insieme ai gruppi I sette Veli d’Oriente e Malayka Sharki. Un’esibizione al femminile di danza del ventre che parla di condivisione e armonia tra anima e corpo. Ci racconta la sua esperienza d’incontro con quest’arte l’insegnante Bruna Scataglini.
Perché la danza è una forma di integrazione?
«Integrazione è anche imparare a conoscere culture diverse, magari approfondendo uno specifico stile con un maestro egiziano. Il nostro gruppo e quelli con cui collaboriamo sono multietnici: dall’Italia al Marocco, dal Congo alla Guinea. E anche di tutte le età: con bambine dai 10 anni a donne fino ai 64 anni. Una mia allieva è algerina e quando balla ha un gran senso della musica, molta grinta ed energia. Dice sempre che si commuove quando danza e ci vede danzare. Ma danzare può significare anche integrare una parte di sé che prima non si conosceva. Io stessa ho vissuto la danza del ventre come un percorso personale di riscoperta di me stessa e del mio femminile, ma può essere anche una riscoperta delle proprie capacità. Nel mio percorso personale avevo sempre dato tanta importanza alla mente, tanto che il mio sogno da bambina era di insegnare Lettere. La vita però mi ha poi portata ad insegnare danza. È stata per me un’integrazione rispetto ad un mio “Non posso”. Si tratta di un’integrazione interpersonale, ma anche intrapersonale».
Come si è avvicinata alla danza orientale (più nota al largo pubblico come danza del ventre)?
«Ho conosciuto la danza orientale in un periodo di crisi e ricerca personale, dopo i 40 anni. Studiavo già da anni astrologia, grafologia e teatro per indagare le mie lacerazioni interiori. Fino a oltre i 30 anni avevo tanto voluto un lavoro, ma avevo sempre la voglia di scappare. M’immaginavo come una specie di Wonder Woman. Avevo sgomitato tanto per ambizione, ma non ero soddisfatta. Ero alla ricerca di risposte. A 40 anni è stato decisivo un viaggio in Egitto: lì mi sentivo a casa, anche se ero diversa. Ricordo di un giorno in cui le bambine di una scuola mi hanno circondato davanti a una Moschea, abbracciandomi e dicendomi “bella” in italiano. Mi sono detta “Questa è casa”. Tornata in Italia ho incontrato una commessa tunisina doc di un negozio di Marina di Montemarciano. Una persona deliziosa, con dei capelli lunghissimi. Teneva un corso di danza del ventre. Faceva una bellissima danza, anche se diceva di non saper insegnare. Mi sentivo quasi ridicola all’idea di partecipare, ma sentivo che volevo farlo. Ho iniziato e, dopo qualche mese, ho avuto il coraggio di scoprire la pancia, è venuto tutto in modo naturale.
Lei ballava e noi la imitavamo, come si fa, pensavo, con una sorella o con una cugina in Egitto, per divertimento. Poi non ho più potuto smettere e, dopo qualche annetto, ho iniziato a studiare seriamente. Chiedevo a chiunque di poter imparare, come un fiore nel deserto che cercava l’acqua».
La danza del ventre può anche aiutare il rapporto col proprio corpo? È una danza per tutti?
«Imparare a danzare non dipende dal fisico. Fatto con le dovute cautele tutti possono arrivare a fare dei movimenti che sembrano impossibili. Per me la danza del ventre è stata anche una riscoperta del corpo. Da piccola non ho mai fatto molto sport e sentivo la corporeità come qualcosa che non mi apparteneva. Invece negli anni ho integrato questa parte che mi mancava. È giusto dirsi che possiamo farcela, senza porsi limiti. In questo la danza è un importante esercizio, fatto di movimento e ritmo. Ad esempio ho insegnato alle mie allieve a contare i passi in 8 tempi. Questo ti permette di non perdere accenti e dettagli di passi, di ricordare e di capire meglio un movimento. Inoltre dà una maggiore fluidità al movimento».
Ci parla di alcune sue esperienze di insegnamento della danza orientale?
«Quest’anno ho insegnato anche all’Università della terza età come volontaria, con alunne piene di voglia di imparare. Quattro di loro hanno persino appreso una tabla (un corpo libero su una base musicale di percussioni, ndr) e l’hanno esibita.
Insegnare è trovare il modo ed avere una chiarezza massima di quello che studio. All’inizio mi sentivo anche sotto giudizio, non sempre in grado di insegnare danza, ma in realtà lo stavo già facendo. E ho visto i progressi delle mie allieve, sempre più sicure e consapevoli. È una grande soddisfazione. Ho voglia di trasmettere tutto ciò che imparo, in fondo ho proprio l’animo dell’insegnante».
Quanto è importante saper insegnare, prima ancora di saper insegnare danza?
«Per me saper insegnare e sapermi relazionare con le persone è la cosa più importante. Sono potuta diventare una danzatrice più valida e ho studiato molti stili proprio perché dovevo insegnarlo. Riuscivo ad intravedere nelle altre il doverci riuscire. Da sola invece uno stile, un tipo di movimento, una base musicale mi sembravano sempre obiettivi troppo difficili da raggiungere. Insegnare è diventata per me l’opportunità per trovare la chiave per imparare. Sono ripartita dalle basi, reimparandole proprio mentre le insegnavo».
Che rapporto ha con le sue allieve?
«Cerco di dare loro una certa autonomia, di renderle capaci di danzare tra loro in gruppo, senza che mi metta io davanti. Nel mio gruppo c’è accoglienza, ma c’è anche la capacità di studiare e ripassare insieme. Mi sento nutrita e contenta quando sono con loro e le vedo lavorare insieme».
Cosa ci può dire della dimensione del gruppo di danza?
«La danza è senz’altro anche una questione di psicologia di gruppo, di mettere in campo energie diverse per un obiettivo comune. Tra donne è molto umano anche nutrire invidia. Esiste tuttavia, a mio avviso, un’invidia “buona”, seppur culturalmente sia considerato un peccato capitale: un’invidia che ti spinge ad ispirarti agli altri per migliorare. Il gruppo di danza ti insegna a stare con le persone senza idealizzarle, a smussare lati caratteriali irrispettosi o da prime donne. Per costruire una sorta di speranza, tolleranza, amicizia e benevolenza. Per ricreare una dimensione comunitaria, anche nel tempo dell’alienazione da social».
Come vede le esibizioni e i saggi di fine corso? Cosa rappresentano?
«L’esibirsi è un esercizio in più alla fine di un percorso, una ennesima prova per raccontare al mondo il mio studio, facendo sognare. Nella mia idea di insegnamento non c’è il diventare famosa o l’avere successo».
Perché danzare per beneficenza?
«Anche quest’anno abbiamo partecipato al Marzocca Summer Festival, evento di beneficenza a favore della Lega Italiana Fibrosi Cistica. Mi sembrava importante, anche perché la fibrosi cistica è molto endemica nelle Marche, c’è proprio una sensibilità legata al territorio. Inoltre il figlio di una mia allieva è guarito grazie ad un’operazione e al sostegno di questa associazione che fa ricerca».
Attualmente in Italia non è previsto un modo unico per insegnare danza o intraprendere percorsi formativi. Che idea si è fatta di brevetti e competizioni?
«Nel mondo delle gare di danza e dei titoli temo che la danza possa divenire un mezzo per emergere, non un fine. Avere insegnanti e punti di riferimento è utile, ma poi la danza deve permettere di esprimere noi stessi. È un’arte che unisce femminile e bellezza».
Approfondiamo questo punto: in che rapporto sono danza e bellezza femminile?
«Si tratta di un richiamo a una forma di armonia che parte da dentro, al di là di canoni esterni. Ogni donna ha diritto di sentirsi bella. La bellezza può venire ad esempio dal movimento di una mano che, attraverso la danza, da legnosa diventa morbida. Si supera anche il tabù della sensualità, ma in modo non volgare: l’armonia tra corpo e anima permette alla bellezza di assumere tante forme possibili, quante sono le donne che si concedono di viverla».