«Camminare è impegnativo ma è la soluzione più efficace che ho trovato per raccogliere storie e poterle regalare (con la penna, una telecamera o la voce) a chi ha voglia di ascoltare. Ho una tessera da giornalista professionista ma in realtà faccio molto altro, sono innanzitutto uno storyteller, un moderno cantastorie».
Parla Luca Pagliari, senigalliese doc, scrittore di numerosi libri, giornalista, storyteller, regista, curatore di programmi e format, autore tra i più prolifici del panorama nazionale, con una modalità narrativa originale ed efficace che oscilla tra il giornalismo e il teatro. Suoi i soggetti e la regia di molti docufilm e documentari di rilievo, molti dei quali online. Per la tv ha realizzato e condotto decine di programmi e di servizi per conto di Raiuno, Raitre, Rai Educational ed altre emittenti televisive nazionali, e vanta un lungo trascorso in radio dove ha ideato e condotto programmi a Radio DeeJay, RDS (di cui è stato anche direttore) e Radio 24. Ogni anno raggiunge migliaia e migliaia di ragazzi, incontrandoli nei teatri ed ora soprattutto in modalità ‘smart’, online, ma anche via radio e tv, in importanti campagne di sensibilizzazione e formazione su tematiche ambientali, stili di vita, sport, etica e legalità, per conto di enti pubblici e privati.
Tra le campagne più felici, e necessarie, degli ultimi anni, quella di #Cuoriconnessi, un progetto promosso da Polizia di Stato e Unieuro, che è diventato un libro (alla seconda ristampa) e anche un canale Youtube, in cui Luca raccoglie le testimonianze di chi ha conosciuto il fenomeno del cyberbullismo e anche di chi, grazie alla tecnologia, ha potuto dare un nuovo senso alla propria vita. Lo scorso 9 febbraio, in occasione del “Safer Internet Day”, l’evento digitale #Cuoriconnessi con Luca Pagliari e tanti ospiti di spessore (tra cui il capo della Polizia Franco Gabrielli) ha raggiunto oltre 3mila scuole italiane e oltre 260mila studenti in tutta Italia, con l’obiettivo di sensibilizzare bambini, adolescenti, ragazzi e famiglie sui rischi e pericoli di un uso distorto di Internet.
Luca, cosa significa essere un cantastorie moderno? Come racconti le tue storie, e perché?
«Da giornalista che arriva da mezzi di comunicazione classici, in particolare tv e radio, dopo tanti anni di lavoro sono voluto uscire dalla gabbia provocata dalla necessità di fare share, audience, ascolti. Questo non sarebbe male se non fosse che in nome degli ascolti si trascurano inevitabilmente i contenuti e si scade in un giornalismo molto superficiale, scandalistico. Sto parlando di 22 anni fa, quando – al tempo ero direttore RDS, e ancora non esisteva il discorso dell’online – iniziai a fare trasmissioni itineranti con il marchio della radio, portando nei teatri una serie di campagne su vari temi, tra cui la droga, la sicurezza stradale, l’ambiente. Questo tipo di approccio ha funzionato tantissimo, per un semplice motivo, perché in questi incontri avevo eliminato tutto quello che riguardava il giudizio, il consiglio diretto, il “quindi, hai visto? questo ti fa bene, questo ti fa male”. Ho scremato tutte queste parti lasciando che gli incontri fossero una materia da plasmare, da discutere, in maniera che i ragazzi potessero porsi delle domande, senza il solito adulto che ti dà il problema e ti fornisce la soluzione. Io raccontavo storie, a volte storie anche molto belle, al di fuori dell’esercizio giornalistico che spesso, e a torto, pensa che solo le storie tristi fanno ascolto. Lo ho fatto, e continuo ancora oggi a farlo, o con la radio, o con i teatri, o in televisione, oppure unendo tutti questi elementi, e lascio che siano gli stessi ragazzi a giudicare le storie che vengono narrate».
Perché le storie sono così importanti per te?
«Nulla come una storia è in grado di trasformarsi in esperienza. Se viene ben raccontata e ben assorbita, la storia diventa per i ragazzi veramente un qualcosa da cui trarre un insegnamento. Questo approccio nel corso del tempo è diventato sempre più presente nella mia vita anche attraverso i tanti libri che ho scritto».
“Cuoriconnessi” e il suo seguito dal titolo “Cuoriconnessi. Cyberbullismo, bullismo e storie di vita online. Tu da che parte stai?” sono tra i tuoi libri più recenti. Un successo clamoroso.
«I libri – il primo del febbraio 2020 e l’altro del 2021 – nascono come ulteriore strumento per comunicare, e ho usato esattamente il metodo delle “storie nude e crude”, a volte anche senza lieto fine, senza applicare ad essere alcun tipo di giudizio. Questo è stato per me un lavoro di grande responsabilità perché, con il logo della Polizia di Stato, rappresenta anche l’azione e il pensiero dello Stato su temi tanto delicati. Sono state oltre 400mila le copie divulgate, e 130mila i download. Sono complessivamente 18 storie diverse, 10 nel primo libro e 8 nell’altro, ispirate a fatti realmente accaduti. Sulla scia di questo successo, mi scrivono molte mamme, ragazzi e ragazze vittime di bullismo, che vorrebbero raccontare le loro storie. La grande soddisfazione è che il libro è stato adottato da migliaia di scuole per affrontare il problema in classe: lo mettono al centro della lettura, ne discutono insieme. Mi ero proposto di raccontare storie efficaci, e credo che l’obiettivo sia stato raggiunto».
Mi aiuti a capire il fenomeno del bullismo, anche praticato online? I casi sono in aumento?
«C’è stata una recrudescenza perché i ragazzi vivono una situazione complicatissima, togliere la libertà a un bambino di 10 anni o a un adolescente è quanto di peggio possa loro accadere. Nel momento in cui hanno la didattica a distanza, le loro giornate sono costellate da cinque ore di fronte a un device per fare lezione, usando una tecnologia moderna con programmi che sono antichi. La metodologia dei docenti non è del tutto adatta ad affrontare una situazione simile, la didattica a distanza richiede ritmi diversi, un modo nuovo di rapportarsi con gli studenti. Quindi i ragazzi si sono trovati con una didattica che è sempre quella, antica anche in classe, e oltretutto confinata di fronte a uno schermo con mille possibilità di svago e distrazione. Quando finiscono le lezioni, passano dal computer allo smartphone e continuano a essere online. Praticamente i ragazzi per molti mesi hanno vissuto solo online. In questo periodo pandemico, il web ci ha molto aiutato ed è stato uno strumento fondamentale, a scuola, nel lavoro e nella relazione tra persone, ma il rovescio della medaglia è che la bulimia digitale rischia di produrre grandi problemi, fisici e mentali. Non sono uno psicoterapeuta e nemmeno un docente, però da uomo di trincea mi verrebbe da dire che i problemi sono aumentati. Sicuramente stanno crescendo i casi di cyberbullismo, di revenge porn e di body shaming».
La rete sta amplificando le discriminazioni?
«La rete di per sé è una cosa stupenda, una grande opportunità. Ci consente di valicare i confini, allungare lo sguardo verso il mondo, però propone anche dei modelli – sto pensando a social come Tik Tok e Instagram – che mirano ad una percezione di cose che puoi desiderare tutta la via ma che non esistono. Oggi un adolescente è costantemente alle prese con un senso di inadeguatezza, prima di postare una foto ne scatta 50, poi usa i filtri e tanto non basta a sentirsi a posto. C’è una rincorsa a tutto ciò che è legato all’immagine e poco al contenuto, questo crea tanti danni e ansia. I ragazzi sanno muoversi molto velocemente sulla tastiera, ma hanno una scarsa consapevolezza dei contenuti; il pensiero critico non è coltivato, in troppi non sanno distinguere una fake news dalla verità. Perché? Perché la tecnologia corre a mille e noi esseri umani dal punto di vista etico e sociale non ci fermiamo a riflettere».
C’è un antidoto? Come ci si può difendere?
«Studiando, affrontando questi temi, portandoli in classe. Lo studio dei fenomeni della rete deve diventare materia scolastica. Non è possibile affidare uno smartphone potentissimo a un bambino di 10 o 12 anni, dicendo solo “oh però stai attento perché c’è la gentaccia che gira”… Non basta, i ragazzi hanno bisogno di una guida, di muoversi conoscendo le regole. Purtroppo non abbiamo docenti e genitori adeguati a questa necessità. Ricordiamo che un bambino di otto anni oggi ha il suo primo apprendimento di educazione sessuale attraverso siti come YouPorn. Questo ci dovrebbe far riflettere. Bastano due click, e sei dentro una piattaforma che non appartiene neanche al deep web, ed è normale che un bambino mosso da curiosità vada a sbirciare dentro mondi che hanno più a che fare con le perversioni che con il sesso. Dobbiamo assolutamente pianificare un discorso educativo, che aiuti non solo i ragazzi ma anche gli adulti a capire che l’online è un grande strumento ma va usato in maniera giusta».
Cosa consigli a un bambino, una bambina, un/una adolescente, che si sente minacciato da fenomeni di persecuzione in rete?
«Di rivolgersi a un adulto di fiducia, che sia un professore, l’allenatore, il genitore. Devono assolutamente condividere il loro disagio. In Cuoriconnessi tanti ragazzi sono riusciti a tirare fuori quello che prima era per loro assolutamente inconfessabile; raccontandosi, sono andati al di là della paura e della vergogna e questo giova loro. Parlare è l’aspetto fondamentale, ma perché si raccontino bisogna creare intorno ai ragazzi meccanismi che li aiutino, a scuola e a casa. Per i genitori capire quale è l’universo online in cui si muovono i figli è fondamentale».
Cosa significa, nella pratica, per un genitore, entrare nell’universo online dei figli? Non è un atteggiamento da spioni?
«Mostrare interesse verso le attività dei figli è sicuramente l’atteggiamento giusto. Invece che dire “basta spegni quel coso”. E poi… un genitore a volte deve essere politicamente scorretto, bisogna che trovi il sistema di intrufolarsi dentro questo mondo. È un po’ come la mamma che chiede al ragazzino “fammi sentire l’alito” per capire se ha bevuto o se ha fumato. Insomma, c’è bisogno che i genitori si diano da fare per avere il controllo della situazione. È gravissimo che un bambino di 10 anni abbia un telefono criptato e che un genitore non possa vedere cosa posta e a chi scrive perché non ha la password. Non va bene nemmeno che un bambino abbia un telefonino prima dei 12 anni. Quella è l’età in cui gli si possono spiegare delle cose, non prima».
Per chiudere, Luca, a che cosa stai lavorando in questo periodo?
«Stiamo lavorando a una serie di incontri online con Cuoriconnessi, con le scuole italiane sempre con la Polizia di Stato, anche con incontri a livello nazionale dove raccontiamo le storie dei ragazzi. Poi ci sono tante attività, anche di formazione ai docenti per avvicinarli in maniera corretta all’utilizzo il più efficace possibile al web».