SENIGALLIA – Accoglienza diffusa dei migranti, legalità e umanità, il modello Riace, la solidarietà a Mimmo Lucano. Di tutto questo e non solo si è parlato all’auditorium San Rocco lunedì 3 dicembre grazie all’iniziativa pubblica promossa da Centro Teatrale e Spazio Autogestito Arvultùra che hanno chiamato a parlare la giornalista Tiziana Barillà, autrice del libro “Mimì capatosta”.
Il progetto portato avanti da Domenico Lucano, sindaco di un piccolo paese della Calabria, Riace appunto, è stata al centro della serata: il “modello Riace” nasce a partire dal 1998, con l’arrivo di un primo gruppo di profughi, principalmente curdi. «Un approdo del tutto casuale, fanno sapere gli organizzatori, in un territorio come la locride dove da decenni detta legge la ‘ndrangheta e dove lo spopolamento è un processo irreversibile». O quasi.
Quasi perché il progetto Riace propone un modello di accoglienza diffusa che contrasta il fenomeno dell’emigrazione verso il nord Italia, cogliendo l’opportunità di stanziare chi fugge da guerra e fame in piccoli centri, senza quindi creare le tensioni come avviene nei concentramenti nelle grandi città. Un modello che guarda alla valorizzazione delle persone, migranti e non, per riaprire botteghe, per ridare vita ai piccoli paesi a rischio e che viene guardato con rispetto in tutto il mondo.
Altri comuni in Italia nel prendono spunto ma il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, viene allontanato a causa di un procedimento giudiziario su presunte irregolarità amministrative proprio per l’accoglienza dei profughi.
Il progetto però non si è fermato: «Il taglio dei finanziamenti al progetto Sprar – ha detto Barillà – ha portato allo smistamento di alcune decine di migranti nei comuni limitrofi, ma il venire meno dei soldi statali potrà dare vita a un processo di autofinanziamento, considerando che da settembre sono arrivati tantissimi contributi da un numero considerevole di persone note e meno note. Una solidarietà che fino ad oggi ha consentito di raccogliere 350mila euro».
Importanti le cifre, ma ancora più importante è il percorso intrapreso a Riace, di cui si è parlato grazie all’iniziativa dello spazio autogestito Arvultùra.
Gli stessi attivisti hanno organizzato anche un altro incontro per parlare di altri migranti, di altri flussi che dalla Bosnia, sulla cosiddetta “rotta balcanica”, stanno cercando di arrivare in Croazia e quindi proseguire il viaggio della speranza verso l’Europa. Proprio alla rotta balcanica è dedicata la serata di giovedì 6 dicembre, alle ore 21 nella sede dello spazio autogestito Arvultùra di via Abbagnano, a Senigallia. Durante la serata verrà proiettato il documentario “Non persone” realizzato da quattro giovani autrici: Chiara Ercolani, Alessandra Mancini (di Senigallia), Giulia Monaco e Valentina Nardo. Le giovani reporter ne parleranno con il giornalista del Carlino e de il fatto quotidiano, Pierfrancesco Curzi, a sua volta autore di numerose inchieste dedicate ai flussi migratori, che lo hanno portato in mezzo mondo e di cui ha parlato anche a Senigallia esattamente un anno fa.
«Abbiamo iniziato a lavorare a questo progetto documentaristico nel gennaio del 2017, perché abbiamo sentito la necessità di capire cosa stesse accadendo a pochi passi da noi, al di là del nostro mare Adriatico, sulla Balkan Route» spiegano le autrici. Il silenzio – su questo versante dell’immigrazione dichiarato ufficialmente “chiuso” – ha reso invisibili le centinaia di persone che vi transitano. Un’esperienza che Chiara, Alessandra, Giulia e Valentina hanno iniziato nel marzo del 2017, zaini in spalla. «Quattro donne e un viaggio a ritroso attraverso i principali Paesi della rotta balcanica coinvolti nel flusso migratorio (Croazia, Serbia, Macedonia, Albania, Montenegro, Bosnia). Un viaggio in treno che ci ha portate prima a Zagabria, all’Hotel Porin, situazione tra il governativo e il non governativo, luogo di passaggio per i migranti che riescono ad arrivare fino a lì; poi alle barracks di Belgrado, campo non ufficiale dietro la Stazione Centrale; infine – grazie all’aiuto di un operatore Caritas Italia – in Macedonia, nei campi ufficiali di Tabanovce e Gevgeljia». Nel documentario si parla di non persone, perché sono private del diritto di vivere la propria vita. Ma chi lo decide?