Senigallia

Pasqua, gli auguri del vescovo di Senigallia Franco Manenti

Il responsabile della diocesi senigalliese si rivolge alle persone impaurite da pandemia e guerra, esortandole ad ascoltare il messaggio di Gesù che parla di speranza

Il vescovo di Senigallia Franco Manenti
Il vescovo di Senigallia Franco Manenti

Nei giorni scorsi mi sono imbattuto in una terzina del XXV° Canto del Paradiso, nella quale Dante, sollecitato da S. Giacomo, parla della speranza:
«”Speme”, diss’io. “è un attender certo
de la gloria futura, il quale produce
grazia divina e precedente merto”».
(«E dissi: “La speranza è attendere con certezza/la beatitudine futura, il quale è il frutto della grazia/di Dio che opera nell’agire virtuoso dell’uomo»), Paradiso XXV, 67-69. Dante ci dice che la speranza è un attendere fiducioso (certo), non tanto la felicità, ma la “beatitudine futura” (quella che Dio ha disposto per ogni persona e che è sottratta all’aggressione del male che mortifica l’esistenza umana), un’attesa, frutto dell’intrecciarsi tra l’agire dell’amore fedele di Dio (“la grazia divina”) e l’agire della libertà dell’uomo. L’intreccio ci avverte che entrambi – la grazia divina e l’agire dell’uomo – offrono un contributo decisivo alla nostra speranza: senza la grazia di Dio (l’agire del suo amore) che sollecita e accompagna il laborioso agire dell’uomo, questo subisce spesso la delusione dell’inconcludenza, del fallimento; senza l’agire laborioso dell’uomo che si apre con fiducia alla grazia di Dio, questa resta come un seme pieno di vita senza un terreno che gli consenta di portare frutto.

I racconti pasquali dei vangeli confermano tale intreccio. In questi racconti Gesù risorto trova i discepoli prigionieri della paura, senza speranza (“speravamo” confessano riguardo a lui i due discepoli, in uscita da Gerusalemme, verso Emmaus), incapaci di riconoscerlo. Il riconoscimento, grazie all’iniziativa di Gesù, che lui è vivo, consente a questo avvenimento, inatteso e, per gli stessi discepoli, improbabile, di essere reso pubblico. Se Gesù non fosse risorto i discepoli, che avevano posto in lui le loro speranze, avrebbero continuato la propria esistenza da “disperati”, da persone senza speranza. E se i discepoli non avessero attestato pubblicamente che Gesù di Nazareth, l’uomo crocifisso, era risorto, aveva sconfitto la morte, Gesù, con la sua parola e la sua vita, non avrebbe mai rappresentato per l’intera umanità la “speranza che non delude”.

Anche quanto sta accadendo nel mondo in questi ultimi tempi conferma la necessità dell’intreccio tra la grazia di Dio che suscita speranza e l’agire dell’uomo che si apre a questa grazia e, per questo, è in grado di attendere la “gloria futura” (la vita piena, libera dalla paura della morte) senza restarne deluso.

Abbiamo sperimentato in fretta la fragilità delle nostre speranze, quando, a fronte della pandemia che aggrediva la nostra esistenza, quell’iniziale attestato pieno di fiducia (“tutto tornerà come prima”) ha dovuto fare i conti con un’emergenza che si è prolungata, che non è ancora del tutto superata e che non ci consente di confermare che “tutto è tornato come prima”; anche quando l’iniziale rete di collaborazione, di solidarietà e di gratitudine, si è progressivamente allentata fino a lacerarsi sotto gli strappi dell’intolleranza, delle accuse incrociate, dei sospetti.

Anche noi, in questi ultimi giorni, a fronte di una guerra che sta distruggendo non solo le case, le città, ma anche la vita delle persone, ci troviamo a riconoscere che “speravamo”, dopo gli orrori delle guerre precedenti, di essere in grado di costruire relazioni di pace e di giustizia tra i popoli.

In questi giorni di lutti e speranze indebolite, l’augurio che rivolgo a tutti è che, celebrando la Pasqua di Gesù, l’uomo crocifisso strappato alla morte che ruba ogni speranza, ci lasciamo raggiungere dalla “grazia divina”, da Gesù stesso il Risorto, che ha sconfitto il male con tutto il suo corredo di morte, di odio, di paura e di chiusure; l’augurio che decidiamo di dare reale ascolto a quanto lui va dicendo, con la sua vita e il suo vangelo, anche a noi, gente colpita nelle proprie speranze; l’augurio che gli consentiamo con la nostra esistenza di ridare speranza alle persone che più di ogni altra la stanno perdendo o l’hanno già smarrita.