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Tania Belvederesi: «Il ciclismo femminile in regione? Tante difficoltà, ma le società vanno elogiate»

La parola al presidente del ciclismo anconetano, ex atleta. «Da quando ho lasciato l'attività agonistica mi sono presa solo un anno di riposo. Definiamolo sabbatico, di indecisione», racconta

Tania Belvederesi

CASTELFIDARDO – Ex ciclista e ora presidente della Federciclismo di Ancona. Tania Belvederesi – un campionato italiano vinto nelle categorie giovanili e varie maglie azzurre indossate – da cinque anni è al comando del ciclismo provinciale. «Da quando ho lasciato l’attività agonistica mi sono presa solo un anno di riposo. Definiamolo sabbatico, di indecisione», racconta Belvederesi, classe 1977, fidardense.

Come si trova nel ruolo di presidente?
«E’ una bella responsabilità. Chi mi ha preceduto ha fatto molto bene (l’ultimo presidente è stato Alessandro Santoni, ndr). Tanto che – visto il bilancio ampiamente positivo – abbiamo intrapreso varie iniziative per le società».

Chi meglio di lei per fare una valutazione del ciclismo femminile in regione?
«Possiamo contare su cinque società (Gruppo Ciclistico Osimo Stazione, Born to Win, Club Corridonia, Porto Sant’Elpidio e O.p. Bike). Oltre una cinquantina di tesserate con 11 esordienti, 13 allieve, 17 juniores e 11 élite). Comprese strada e fuoristrada. Le Marche però meriterebbero di più».

Cosa manca?
«C’è da elogiare innanzitutto le società e ringraziarle per il lavoro che fanno. Purtroppo la situazione è difficile per tutti. Il ciclismo è sacrificio e nel femminile ancora di più. Bisogna fare tanti chilometri per andare a gareggiare sin dalle categorie giovanili con trasferte lontane, ogni settimana».

Non è cambiato niente rispetto agli anni precedenti?
«Qualcosa si. Grazie alla Challenge Rosa ci sono varie gare che vengono allestite nelle Marche e nelle regioni limitrofe. Questo sicuramente rende un po’ meno difficoltosa l’attività».

A livello economico?
«Girano pochi soldi. Purtroppo il ciclismo femminile ê stato sempre uno sport povero. A confronto con il maschile c’è un abisso. Tanto che nel femminile non esiste la parola professionismo, ma la categoria massima viene definita Elite senza contratto. E pensare che ultimamente il ciclismo femminile da più risultati di quello maschile. Penso a Longo Borghini, ma stanno crescendo anche ragazze giovani che stanno facendo molto bene».

Si emigra anche nel ciclismo?
«Si, all’estero c’è più organizzazione e girano anche più soldi. Una cosa positiva è quella che squadre femminili si sono unite a quelle maschili. Un esempio è l’Astana»

In Italia questo progetto non è decollato?
«Nel 2004 si era provato con l’Acqua Sapone. Purtroppo si è arenato tutto. È stara una bella esperienza, ma non è facile quando non c’è un progetto a lungo termine».

Anche lei può vantare un’esperienza all’estero?
«In Olanda. Nel 2002. La più bella in assoluto. Alla Power Plate. Eravamo le prime italiane a correre fuori. Io, Alessandra Cappellotto e Ketty Manfrin».

Il futuro?
«Non esiste la bacchetta magica. Le istituzioni dovrebbero fare qualcosa, ma non si sa cosa fare. Mancano le piste ciclabili, ma soprattutto la cultura e i tesserati sono in calo e non solo nel femminile».

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